[4,6 min lettura]
Io sono un’orgogliosa centaura da moto - anche se faccio solo la zavorra appollaiata dietro - e quasi mi vergogno a girare Santiago con uno scooterone senza fascino e rombo.
Gli abitanti di Santiago però non mi giudicano. O almeno non mi giudicano per il mezzo di trasporto. Certo, la nostra pelle bianca attira gli sguardi, specialmente nell’entroterra, ma non ci guardano né bene né male. Mi sento accolta a metà, benvenuta fino a un certo punto. Benvenuta perché sono una turista e un aiuto all’economia male non fa, però i colonizzatori, invasori e schiavisti, avevano la mia stessa faccia bianca e mi sa che la gente non lo dimentica.
Quando i navigatori portoghesi le scoprirono, era il 1460 e le isole di Capo Verde erano lì solitarie, disabitate del tutto. Erano gioielli in mezzo all’Atlantico, poi trasformate nello snodo doloroso per la tratta degli schiavi. Ho visitato Cidade Velha, lì a Santiago, che è patrimonio dell’Umanità e non c’è tanto da vedere, ma tantissimo da pensare. Nel mezzo della piazza, una colonna tonda di pietra dove gli schiavi venivano esposti e venduti, ma anche frustati e giustiziati. Non so se fotografarla serva a ricordare o sia invece irrispettoso. Nel dubbio l’ho impressa in testa soltanto.
L’indipendenza di Capo Verde è del 1975, cioè l’altro ieri. Quindi sì, ricordano.
Ciao. Grazie di essere qui! Stai leggendo il primo racconto capoverdiano. Fammi sapere che ne pensi!
Se non sei iscritto, c’è un utilissimo pulsante:
Nell’entroterra, con lo scooterone rosso, mi ricordo di essere in faccia al Senegal. Catapultata in un documentario sull’Africa nera, tra la vegetazione di banane, papaie e canna da zucchero, a rubare scorci di vita quotidiana attraverso il casco.
Ogni tanto un agglomerato con case basse, tetto piatto e cemento esposto. Davanti alle case, lenzuola e vestiti ad asciugare: non su un filo, ma stesi a terra. Gli abitanti sono impegnati, intagliano canne, abbrustoliscono pollo.
Le donne trasportano roba, rigorosamente in equilibrio sopra alla testa. Ragazzini a mandrie sollevano annoiati la testa. A bordo strada, banchetti con noci di cocco e lecca-lecca. Cani randagi, rinsecchiti, stanchi. E poi di nuovo vegetazione smeraldo, palme, banani e papaie.
La strada si incurva e fa sali e scendi, poi all’improvviso ecco il mare di nuovo. Torniamo a Praia, che è tutta a Sud, seguendo la costa.
Praia è la capitale di Capo Verde, ha un centro placido chiamato Plateau: quartiere piatto su una collinetta. C’è una piazza, una chiesa affollata gremita di gente fino al cortile, qualche ristorante, qualche bar, taxi e vie di traffico intenso.
Giù dal Plateau, scendendo da un lato, ci si affaccia al mare e al quartiere ricco. Case bianche nate da poco, cancelli giganti, macchinoni che stridono e guardie private. C’è un percorso sul lungo mare dove i capoverdiani ricchi hanno il cane al guinzaglio e fanno una brava corsetta serale.
Giù dal Plateau, dall’altro lato, le strade si fanno via via incasinate e sfociano nel mercato di Sucupira. Polveroso e colorato. Cassette di plastica con sopra la merce, patate, cipolle, la frutta più varia. Tessuti e vestiti appesi dall’alto. Bacinelle enormi sopra alle teste e barili blu in mezzo alla strada, pieni di cosa non l’ho capito.
Il faro mi regala il tramonto perfetto e l’incontro col ragazzo del faro. È il guardiano che vive lì dentro, passa lì dentro tutti i suoi giorni e lì dentro dorme su un giaciglio all’ingresso. Quando con le chiavi ci apre le porte e ci guida su per le scale a chiocciola, ha lo sguardo di chi sa che ti sta offrendo un tesoro.
Dormirà pure su una coperta, ma ha la vista sulla bellezza più pura. Allora gli dico che è fortunato, annuisce e fa sì con la testa convinto. Lo sguardo puntato all’orizzonte e gli occhi brilluccicano tutti orgogliosi.


L’ultima sera a Praia mi regala anche José.
José è un cuoco e un personaggio proprio di quelli che piacciono a me. Non solo perché fa la cucina più buona di tutto il viaggio, ma anche perché mi immergo nella sua storia.
José cucina a esaurimento: se arrivi e il pesce fresco è finito, ti caccia via dal locale - a brutto muso. Tu provi ad affacciarti dentro la porta e lui (omaccione, capelli spessi ondulati e ricce basette grige da marinaio) ti fa un gesto che è una minaccia: palmo steso con dita rivolte verso il suo collo, a muoversi rapide in orizzontale, come a dire “ti taglio la testa”. José vuole intendere che non c’è più pesce, ma la prima sera mi ha lasciato interdetta.
La seconda sera ci ho riprovato e mi ha accolto nel suo ristorante: soffitti alti e mura dipinte con i disegni del tram di Lisbona. Così ho scoperto che è portoghese. José parla cinque o sei lingue, tra cui l’italiano perfettamente, perché ha vissuto in tante parti del mondo e nello specifico anche in Sardegna. Le fidanzate sarde non gli sono mancate e nemmeno le vicende da raccontare: era in Ogliastra negli anni ‘80 e si è vissuto il periodo di tutti i sequestri.
José non beve da 15 anni, l’alcol lo ha demolito in passato e deve aver distrutto la sua famiglia, perché c’è una figlia da qualche parte lontana che gli offusca lo sguardo quando ne parla. Se ride, però, è contagioso e produce un ruvido gracchio di gola. Sembra quasi un gatto che soffia, ma lo sguardo è dolce e divertito. José è proprio un buono e ci dice che dopo cena ci riaccompagnerà al Plateau per prudenza: ci spiega che a largo di Santiago iniziano acque internazionali che arrivano, dirette e senza legislazione, fino alle coste della Colombia. Capo Verde è quindi nodo di spaccio e perfetto porto d’ingresso di droghe varie verso l’Europa. I ragazzini che non possono pagare la coca, in quei quartieri ripiegano sul crack e, secondo José, sono violenti.
Intanto io mangio il mio pesce squisito e partono i Metallica di sottofondo. La canzone è Nothing else matters, che però suona strana perché interpretata da un capoverdiano. Lì per lì mi pare blasfemo, però la melodia è quella giusta.
Poi c'è José e il suo romanzo di vita. C’è il Porto offerto a tutti i presenti. Ci siamo noi e la giornata infinita in quell'isoletta lì nell’Atlantico che oggi mi pare più familiare. E, come sempre, hanno ragione i Metallica: non c'è nient'altro che conta davvero.
So close, no matter how far
Couldn't be much more from the heart
Forever trusting who we are
No, nothing else matters.
Gaia
❤️ Ti è piaciuto il primo racconto a Capo Verde? Mi metti un cuoricino??
📩 Ci vediamo mercoledì con il prossimo: si cambia isola e si cambia ambientazione.
💬 Ti piace quello che scrivo? Lasciami un commento e condividi le mie storie, mi aiuterai a farmi conoscere!
📱 Seguimi su Instagram & Facebook
☕ Ci vuole caffeina per scrivere:
📹 Qui sotto trovi un pezzetto di un’intervista in cui fingo di non vergognarmi:
Che bello!Hai ricominciato a viaggiare...Io sono stata solo in luoghi europei, per cui i tuoi racconti colmano questa grave lacuna della mia vita!!! Sei sempre profonda e riesci a rivelare l'anima dei luoghi che descrivi. Hai una immensa dote di scrittrice che ammiro molto! Grazie Gaia.
Avessi avuto qualche anno in meno ti avrei seguita in tutti questi spostamenti in giro x il mondo....era ciò che mi piaceva fare e non ho fatto......per fortuna ci sei tu che mi fa sognare!!!♥️♥️♥️