IL CANTO DELL'OCEANO
Il richiamo delle megattere dalla selvaggia costa del Pacifico colombiano.
[4 min]
L’aereo è piccino picciò, all’interno in piedi ci sto solo perché sono bassina e, una volta seduta, mi pare di doverlo guidare io tanto sono appiccicata al pilota. Però così posso controllarlo, il pilota. E so che è rimasto ben concentrato per tutta la durata del volo. Okay che lanciava occhiate libidinose e frequenti verso la confezione avvolta in carta stagnola alla sua destra (il suo pranzo, di sicuro), però non si è lasciato tentare. Il viaggio è tranquillo e l’atterraggio è in un aeroporto giocattolo almeno quanto l’aereo stesso. I controlli li fanno a tastoni, toccheggiando gli zaini da fuori, senza scanner ad aiutare. Poi un tuk-tuk sobbalzante sulla strada sconnessa e arriviamo a Bahía Solano: la cittadina di strade sabbiose tuffata sulla costa del Pacifico colombiano.
Siamo lì per vedere le balene.




Del mare sudamericano io ho già conosciuto i Caraibi e quella loro vivacità cristallina, i colori vibranti e l’atmosfera di danza: questa qui è un’altra storia. La costa del Pacifico, lì sotto Panama, è prorompente a ogni respiro. C’è la foresta pluviale che spinge e preme fino a invadere il mare, con un verde pesante che luccica umido e piante fitte invalicabili. C’è la spiaggia che lotta a sua volta per riappropriarsi del proprio spazio. Finché batte il sole, la sabbia brilla di un bel colore che è un ocra denso. Però è un attimo che si alza il vento, arrivano nuvoloni a incupire lo sfondo e quella sabbia diventa scura, profuma forte di legno e si alza la nebbia dalla foresta. Poi c’è l’oceano: inarrestabile e immenso. Onde di un blu così profondo che non faccio in tempo ad accorgermene e già sono grigie.


Basta poco per sentirsi sopraffatti. Basta ancor meno per correre indietro: il mio compagno di viaggio mi sta abbandonando. Per quando arriviamo in camera e si butta sul letto, è bollente e febbricitante. All’inizio diciamo che non mi stupisco, Lorenzo è frequente che in viaggio si ammali. Noi stiamo attenti, ma l’intestino è debole e una goccia d’acqua contaminata me lo distrugge per qualche ora.
A Bahía Solano però la situazione è grave, perché sprofonda tra quelle reti che dovrebbero servire ad allontanare gli insetti e invece diventano il suo infelice sudario. Vi risparmio le mie cure stressate e tutti i medicinali con cui l’ho imbottito, nel suo dormi veglia mezzo incosciente. Però quando ha iniziato ad allucinare (così dal niente vede un uomo lì nella stanza e io mi giro, ma siamo soli), esco fuori a cercare aiuto.
Ovviamente non c’è un ospedale, non un medico, né uno sciamano. L’aereo piccino che ci ha accompagnato passa ogni due giorni, quando non piove. Come un’ancora di salvezza trovo un vecchietto in spiaggia: non ha medicine, non ha denti, non ha suggerimenti e non parla spagnolo, però ha un contenitore con sigarette sfuse e una borsa frigo con la Coca-Cola.
Quando si è spaesati in terra straniera, è sempre più facile aggrapparsi alle origini e in quel momento la Coca-Cola mi pare uno spiraglio di società occidentale. E infatti con un cucchiaino alla volta - sarà che reidrata o saranno gli zuccheri, sarà che non era destino che mi lasciasse quel giorno - Lorenzo si ripiglia e, la mattina dopo, siamo pronti per le balene.
Nel Pacifico colombiano passano le megattere. Sono migratrici e lì è il posto perfetto per accoppiarsi e sfornare i balenotteri. Anzi IL balenottero: mamma megattera ne fa uno alla volta, con gestazione di 11 mesi e, quando nasce, è un bel pupazzetto di già 4 o 5 metri. Da adulte superano i 12 e possono pesare fino a 40 tonnellate. Ci raccontano quei numeri mentre avanziamo in mare aperto e mentre cresce l’attesa. Ci dicono anche che amano i salti e che hanno macchie bianche su ventre e coda: un’impronta digitale unica, ognuna ha le sue, per sempre indelebili a identificarle. In tutto ciò io mastico Travelgum, che soffro sempre di mal di mare e spero di incontrarle velocemente perché mi manca la terra ferma.
Per quanto mi abbiano preparato al momento, la prima megattera mi strappa il fiato: emerge da sotto lo scafo ed è di un enorme che non concepivo.
Il frastuono fa un vooooom colossale che trema diretto dentro allo stomaco e sembra venire dal centro del mondo.
Lei esce fuori, grigio scura, maestosa, e fa un arco elegante accanto alla barca. Così vicina che potrei toccarla, così immensa che l’oceano intimidisce ammutolito sotto di lei. Poi svanisce con un risucchio e sembra impossibile che ci sia abbastanza spazio lì sotto.
In realtà c’è posto per decine di loro e passiamo la mattina ad avvistarle. Spesso si annunciano col tipico spruzzo, il soffio d’acqua e aria compresse, che sparano forte in alto dallo sfiatatoio come un geyser marino, seguito dal loro dorso scuro e dal balzo massiccio.
Le megattere cantano.
Producono una gran varietà di suoni come note musicali che combinano in un ordine preciso a formare vere e proprie canzoni. Le balene che migrano insieme cantano la stessa complessa canzone. Ogni anno poi il brano cambia, perché si contamina con gli altri gruppi. Chissà che pagherei per interpretarle, per sapere se raccontano d’amore e passioni oppure, come me, sono metallare.
Magari nei loro canti ridono di noi, che gli rompiamo le scatole girandogli intorno. Dicono che gli facciamo perdere tempo a guardare in alto prima di respirare, per non sbattere la testa contro la nostra barchetta insulsa. Chi lo sa cosa si dicono?
Noi rimarremo a lungo col dubbio, ma le lasciamo in pace a nuotare.
Torno a riva, minuscola e stanca.
E loro, magnifiche, le lascio cantare.
Gaia
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Ci vuole caffeina per scrivere:
Ci vediamo mercoledì prossimo, con un altro racconto colombiano. Non vedo l’ora perché ti racconterò una delle mie più grandi emozioni di sempre.
Hai una capacità descrittiva disarmante, condita di sottile ironia! Ovvio che anche questa volta ci hai portato con te e con te abbiamo avuto paura, ci siamo stupiti, ci siamo divertiti e abbiamo temuto per la salute del tuo pazientissimo Lorenzo!
Spettacolare