LA MIA MOTO NON È UNA BARCA, MA LEI NON LO SA
My motorcycle isn't a boat, but she doesn't know that
3.5 min lettura
[Eng Below]
“Pronta?”
“Ma ce la facciamo?”
“Pronta??!”
E allora piego le ginocchia per sollevare i piedi all’indietro, che va bene cadere, ma meglio a piedi asciutti. E stringo gli occhi per non guardare, che va bene ammazzarsi, ma meglio non vederlo. E mi aggrappo forte alla moto senza respirare, cerco di comunicarle che ce la farà.
Non sono tipa da scaramanzie, ma a mali estremi estreme superstizioni. E poi quella posizione irrigidita è stata la strategia vincente della giornata: non la modificherò certo all’ultimo guado. L’ultimo guado che è il più profondo: il fondale non si vede – a maggior ragione con gli occhi stritolati di paura. L’ultimo guado formato da un torrente che viene giù scrosciando dalla montagna di fianco e con la corrente che spinge forte, impietosa, a sinistra.
Pronta.
Come siamo finiti lì a 7000 chilometri da casa e a 5000 metri di altitudine sull’Himalaya indiano, in sella ad una Royal Enfield per raggiungere Pangong Lake al confine con la Cina, non lo so più.
So che sono seduta dietro, sulla sella di una moto ostinata. So che contro la mia schiena preme un borsone legato da cinghie verdi e che devo sorvegliarlo. A forza di buche e ciottolato scivola giù, ma non lo lascio andare: dentro ci sono i maglioni in pile per dormire nei tendoni freddi, il filtro per bere l’acqua non potabile, le pasticche di Diamox che dovrebbero sconfiggere il mal di montagna e l’Enterogermina che dovrebbe sconfiggere il cibo piccante. Insomma, il borsone salvavita che a volte tengo così stretto che mi vengono i crampi.
Ci avevano detto di partire presto, nel campo dove avevamo dormito la notte prima. Ci aspettava una strada brutta e, all’aumentare della temperatura, il ghiaccio delle montagne vicino si sarebbe sciolto sommergendo il nostro percorso. E quindi sì, siamo partiti presto.
E no, la strada non era brutta: quella non era una strada. Sali e scendi di ciottoli e breccia, di polvere e fango, di bellezza e angoscia. E quindi siamo andati lenti e la temperatura è salita, ma il ghiaccio non ci ha aspettato e si è sciolto lo stesso. Lo stronzo. Ora è pomeriggio e traversiamo un guado dopo l’altro.
Abbiamo però visto il lago da lontano, enorme che è un mare e celeste che è un sogno. Circondato da massicci scuri. Lo ho intravisto e quindi è vero, esiste, è lì.
E la strada, è solo strada nel mezzo.
Poi Internet dice che sia salato e non posso tornare indietro senza scoprire se è vero.
“Pronta??!”
Gli occhi stretti, ma sento il rombo della moto, le ruote che un po’ avanzano e un po’ slittano. Slittano, scivolano, avanzano. Il torrente che spinge.
Non respiro.
Stringo forte.
Siamo di là.
Il motociclista lancia un urlo a scaricare l’adrenalina, di quelli da Tarzan, di quelli da film. Bah. È proprio un uomo. Che ci vuoi fare. Ho gli occhi ancora strizzati, però mi scappa da ridere. Non posso farmi sentire dal motociclista – che si dà il caso sia il mio ragazzo – non posso prenderlo in giro visto che è riuscito a tenere la moto dritta ancora una volta e per tutta l’ultima settimana nelle condizioni più disgraziate.
Anche quando ero sicura che non ce l’avrebbe fatta. Quando in discesa, su curve a gomito incarognite, ho visto i burroni e mi è venuta voglia di raccomandarmi alla Madonna e ai santi, ma poi ho lasciato perdere perché io, la Madonna e i santi non andiamo d’accordo. E ancor meno simpatia avranno loro per il motociclista, visto che li ha invocati, spesso e invano.
Quindi è mia profonda convinzione che la moto sia rimasta dritta solo grazie ai miei occhi stretti, il mio respiro trattenuto e la forza di volontà.
Eccolo lì: il lago in mezzo ai monti mori al confine con la Cina, ecco il villaggio dove dormiremo e l’acqua che dicono sia salata.
Andiamo ad assaggiarla.





Gaia
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Ti aspetto mercoledì prossimo con un nuovo racconto di città.
Leggi il racconto precedente:
ALBICOCCHE CONTESE
·4 min lettura [Eng Below] Tra i più grandi produttori di albicocche al mondo c’è il Pakistan e io non ne avevo idea prima di raggiungerlo. Di raggiungerlo per un pelo, in realtà: i militari ci hanno fermato a un posto di blocco. Solo gli indiani sono ammessi al confine. Noi eravamo bardati per polvere e vento. Casco, giacca, guanti, fasce, occhiali da sol…
[ENG - 3.5 MINUTES READING TIME]
MY MOTORCYCLE ISN'T A BOAT, BUT SHE DOESN'T KNOW THAT.
"Ready?"
"Are we going to make it?"
"Ready??!"
I bend my knees to lift my feet backward: it is okay to fall, but better with dry feet. I squeeze my eyes shut to avoid looking: it is okay to die, but better not to see it coming. I cling tightly to the bike without breathing, trying to tell her that she will make it.
I'm not one for irrational beliefs, but desperate times call for desperate superstitions. And that rigid position has been my winning strategy of the day: I won't change it at the last ford. The last ford, which is the deepest: the bottom isn't visible – especially with eyes clenched in fear. The last crossing formed by a stream that comes roaring down from the mountain to the side and with the current pushing hard, mercilessly, to the left.
Ready.
How we ended up there, 7000 kilometers from home and 5000 meters above sea level in the Indian Himalayas, riding a Royal Enfield to reach Pangong Lake at the border with China, I no longer know.
What I do know is that I’m sitting on the back of a stubborn motorcycle. I know that against my back presses a duffel bag tied by green belts, and I must save it. With all the potholes and gravel, it slides down, but I don’t let it go: inside there are the fleece sweaters for sleeping in cold tents, the filter for drinking non-potable water, Diamox pills that should beat altitude sickness, and Enterogermina that should defeat the spicy food. In short, a lifesaving duffel bag that I sometimes hold so tightly it gives me cramps.
They told us to leave early, at the camp where we slept the night before. A bad road awaited us, and as the temperature rose, the ice from the nearby mountains would melt, flooding our path. So yes, we left early.
And no, the road wasn’t bad: that wasn’t a road at all. Up and down over cobblestones and scree, dust and mud, beauty and anguish. So we went slowly, and the temperature rose, but the ice didn’t wait and melted anyway. The bastard. And now it’s afternoon, and we’re crossing one ford after another.
But we saw the lake from afar, vast as a sea and blue as a dream, surrounded by dark massifs. I glimpsed it, so it’s real, it exists, it’s there.
And the road, is just a road in the middle.
The internet says it’s salty, and I can’t go back without finding out if it’s true.
"Ready??!"
Eyes shut tight, but I hear the roar of the motorcycle, the wheels sometimes moving forward, sometimes slipping. Slipping, sliding, moving forward. The stream pushing.
I don’t breathe.
I hold on tight.
We are on the other side.
The biker lets out a Tarzan-like yell, one of those movie screams to release the adrenaline. He’s such a man. What can you do? My eyes are still squeezed shut, but I can’t help but laugh. I can’t let the biker – who happens to be my boyfriend – hear me; I can’t make fun of him since he managed to keep the bike upright once again, and for the entire last week in the most wretched conditions.
Even when I was sure he wouldn’t make it. When descending, on tight, vicious hairpin bends, I saw the cliffs and felt like praying to the Virgin Mary and the saints, but then I gave up because I, the Virgin Mary and the saints don’t get along. And they would like the biker even less, since he has invoked them, often and in vain.
So, it is my firm belief that the bike stayed upright solely thanks to my squeezed eyes, my held breath, and willpower.
There it is: the lake amidst the dark mountains at the border with China, the village where we will sleep, and the water they say is salty.
Let’s go taste it.
Gaia
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Viaggiando in quei luoghi ci si accorge quanto i problemi che per noi qui sono grandi e che paiono affliggerci siano una entità del tutto trascurabile. Per quei monti, a quelle terre, il riscaldamento globale, l'inclusione, il patriarcato, le auto elettriche, le sofferenze per chi ha lavori disagiati, l'economia del denaro e del Potere non hanno impotanza. Gli esseri umani sono piccole formiche presuntuose. La maestositò di quella natura li snobba con superiorità. Quando l'Umanità scomparirà (chi l'ha detto che l'umanità sopravviverà per sempre?) quella Natura immensa sarà ancora lì oppure sopravvivrà con le sue molecole inglobate nella Grande Implosione o Esplosione dell'Universo. Sapevatelo, voi umani!! Ciao Gaia e buona continuazioe di viaggio