Cosa provi tu quando ti dicono “coccodrillo”? Ansia? Pensi a quel lucertolazzo letale e ti si arrampica sinuoso un brividino lungo la schiena? Oppure ammirazione? Magari da bambino collezionavi modellini di dinosauri, sapevi a memoria tutti i nomi e una creatura primordiale che ha attraversato le epoche indisturbata ti evoca solo venerazione e rispetto? Io, sempre stata della prima fazione. Però il viaggio nella foresta amazzonica ha lasciato il segno. Oggi - prima di paura, ribrezzo o timore - se penso ai coccodrilli provo sempre e forte dell’altro: senso di colpa.
Questo è il racconto di come è successo, di cosa ho sbagliato e delle mie vicissitudini col Rio delle Amazzoni.
Con le bestie lì della giungla - insettoni, rettili, scimmie e compagnia bella - avevo già avuto il mio bel da fare, ma solo dopo varie escursioni terrestri mi sono avvicinata anche a quelle dell’acqua.
Leggi le prime tappe qui: Bruco, anaconda e machete & Madre selva non perdona
L’avvicinamento è iniziato con una domanda innocente, a cui con ingenuità ho risposto di sì.
“Volete fare il bagno al fiume?”
Ci hanno svegliato così, dalla pennichella. Nella comunità indigena che ci ospita, dopo pranzo ci spediscono a dormire. Che io abbia sonno o meno non è un problema loro. Dicono dobbiamo riposarci e per me è una scusa: vorranno tregua per un’oretta, stufi di fare i badanti a noi due cittadini incapaci che rischiamo di continuo di farci ammazzare.
A me fare il bagno pare un’attività rilassante e poi con la giungla sono molto offesa: mi sbatte in faccia senza pietà la mia inettitudine e per di più quella mattina sono anche caduta da una liana. Come mai io abbia tentato l’impresa non saprei dirlo, forse solo per raccontare a casa di aver oscillato come Tarzan o Jane. Però il tempo totale che sono rimasta aggrappata è stato un secondo o forse neanche. Le dita non mi hanno retto e sono crollata, sbattendo dolorosamente a terra la dignità e soprattutto il sedere.
Quindi sono felice di fare una pausa e andare in acqua che galleggiare è più semplice. Ci allontaniamo con la barchetta a motore e realizzo presto che questo bagno non assomiglierà affatto a un tuffo in piscina. Il tipo che conduce la barca, quando decide che siamo arrivati, fa tre giri concentrici rombando forte, poi spegne il motore e ci guarda in attesa. Ci fa capire che dobbiamo buttarci in mezzo al cerchio che ha disegnato.
Mi guardo intorno disorientata e l’intorno risponde con quel rumore avvolgente a cui non potrò mai abituarmi davvero. Dalle fronde arriva fruscio di foglie o forse quello è mormorio di scimmie, schiocchi, grugniti, ronzii, canti e richiami.
Guardo giù l’acqua che invece è calma, la superficie piatta, scura e pesante che pare densa. Quel bacino è gigante, ma è acquitrinoso. Ci tuffiamo.
Prima sorpresa: l’acqua è caldina, il mio corpo sparisce dentro, non vedo le mani e figurati i piedi, non c’è visuale, è tutto melmoso.
“Lo sai perché ha fatto quei giri in tondo prima di farci buttare?”
“Mah, non saprei” rispondo distratta a Lorenzo “qui hanno rituali strani, sarà una tradizione antica.”
“Ah, ti piacerebbe” risponde lui “quello è il modo per spaventare gli animali: con il rumore del motore stanno alla larga da noi che facciamo il bagno.”
“Quali animali?” Però non voglio risposta.
E chissà perché da quel momento inizio a sentire strusciare tra i piedi, tra le gambe e altezza pancia. Non voglio sapere che pesci siano e più che altro se sono pesci, cerco di tirar su tutto il corpo e offrire ai ripugnanti esseri sott’acqua meno parti di pelle possibile. Quando risaliamo a bordo sono felice: ho tutti quanti i pezzi con me. Un po’ meno felice alla conferma che i giri concentrici erano per prudenza: con gli animali acquatici non si sa mai.


Poco più tardi è orario di pesca, cambiamo barca e si riparte. La prima cosa che mi disturba è che andiamo a pescare i piranha, la seconda cosa che mi frastorna è che lo facciamo trenta metri più in là di dove noi stavamo nuotando.
Buttano in acqua pezzetti di pollo e l’acqua freme tutta in subbuglio, sbucano pinne, sbucano code e soprattutto sbucano denti.
Sono brutti e indiavolati, però non mi piace doverli pescare. So che è ipocrisia fatta e finita, ma un conto mangiarli già cucinati e un conto essere io causa primaria del loro prematuro trapasso. Lì nella barca mi guardano strano e il ragazzino che ci accompagna ci tiene a mettere la situazione in chiaro: i piranha sono il mio pasto di quella sera, se non li prendiamo non è che da mangiare io trovi dell’altro. E allora prendo in mano la canna da pesca: la sopravvivenza vince sempre su tutto.


Quando fa buio, dopo la cena, arriva il momento clou di quel giorno: si parte di nuovo su una barchetta per il safari a vedere i caimani. Non sono coccodrilli che andiamo a cercare: i caimani sono diversi per forma, colore e tanti altri avvincenti attributi che io dimentico il secondo dopo.
Sto accumulando tensione da ore e adesso partire nel nero profondo, con una barchetta in mezzo alla giungla e l’obiettivo di incontrare i caimani a me non pare la scelta più saggia.
Ho due convinzioni però nella testa: la prima è che il safari si farà distante (coccodrilli o caimani che siano, di certo saranno in un luogo appartato) e la seconda è che se li vedremo, sarà ovviamente da molto lontano. Inutile dire che sono stata smentita in tutte e due le mie poche certezze.
“Ma come qui? Un metro più là facevamo il bagno!”
“Ah, chica tranquilla, mi dice la guida. Hai visto che non ti hanno dato fastidio. Le barche a motore a loro non piacciono e sono rimasti lontano.”
E infatti ora avanziamo coi remi.
Si scivola placidi sulla superficie e io non sono per niente a mio agio, abbandonata nelle mani del ragazzino che rema. Mi ripeto che per lui è normale e che anche lui ci tiene alla pelle. Però i rumori incombenti che non so a che cosa associare, più il nero pesto e la barca che oscilla, mi fanno sentire tanto impotente.
Come si individuano i caimani? Con la torcia, se non lo sapeste. Devi puntare verso la costa e cercare la luce che si riflette: i loro occhi sbrilluccicano al buio.
Sarà la mia agitata immaginazione o sarà che l’acqua pullula, ma come mi giro vedo brillare occhi attenti che mi puntano male. Il ragazzino all’improvviso si stende, a pancia in giù e più fuori che dentro, si immerge poi con le braccia affondate, lo sento che lotta e dopo poco riemerge con un bel caimanotto in mano. Quel povero caimano è paralizzato, tiene gli occhi spalancati giganti e oscilla le pupille a guardarsi intorno. Lui che lo afferra intanto ci spiega le parti del corpo, le unghiazze e la coda. Ci dice che avrà circa due anni.
Poi ci domanda chi vuole tenerlo. Io indico Lorenzo senza mezza incertezza: va bene l’amore, il femminismo e la parità dei sessi, ma il caimano in braccio lo pigli tu per primo.
Quando tocca a me sono concentratissima, è il mio modo per non pensare al terrore, seguo le istruzioni in spagnolo e le ripeto in inglese. Devo stringerlo forte sotto il collo con una mano e con l’altra bloccare la coda. A due anni è piccolino, un metro di belva o poco di più. Però quando me lo appoggiano rigido, duro e squamoso sulle ginocchia, a me pare davvero un gigante.


È presto il momento di liberarlo, mi fanno mille raccomandazioni, devo adagiarlo soavemente, così che lui possa nuotare, e la presa sul collo va lasciata per ultima. Se sbatte sull’acqua lui si fa male e non dobbiamo traumatizzarlo, ma lasciarlo lì dove lo abbiamo trovato. Solo che appena provo ad allungarmi verso bordo barca, il caimano vede l’acqua o forse io allento la presa, fatto sta che lo sento scapparmi di mano, divincolarsi e più non lo reggo. Nella foga del momento non lo so che faccio e poi mi hanno detto che l’ho proprio lanciato. Il risultato è un bel ciaf nell’acqua e la povera bestia non ce l’ho più in mano.
Cavoli era stato un così bravo animale, un bimbotto, un bel cucciolone, per niente aggressivo anche se avrebbe potuto e io l’ho ripagato senza ritegno dando il mio meglio nel lancio al caimano.
Chiedo se si sia fatto male e la guida dice che un pochino è possibile, poi quando mi vede che son disperata mi rassicura, ma ormai è troppo tardi. Già lo so che me lo porterò dentro per sempre, anche perché non penso avrò occasioni per rimediare e fare ammenda con lui o la sua specie. Torno mesta al villaggio dei Tikuna e me lo ripeto lì nella testa:
“Coccodrillino, ti prego, perdonami per la panciata che ti sei preso, io non sapevo come sarebbe finita, non è che ci tenessi a incontrarti, ma già che c’ero non ti volevo far male.
Ti auguro tu cresca sano, forte e senza traumi infantili. Auguro a me che la tua mamma non lo venga a sapere e intanto domani mi lancio di nuovo dalla liana, per espiare.”
Gaia
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Questa era l’ultimo episodio in foresta, ma ci vediamo mercoledì prossimo con un’altra tappa dalla Colombia. Ti aspetto!
Hai avuto un bel coraggio... Quando avrai fatto il giro del mondo ti metterai in lista d'attesa per lo spazio?