LE PINNETTE DELLA LIBERTÀ
Di quando la forza di vivere sfida l’immensità del Pacifico e le lacrime non si trattengono
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Se vuoi mettermi in difficoltà, prova a chiedermi qual è il mio film, libro o gruppo musicale preferito. Mi vedrai spalancare gli occhi imbambolata a rincorrere una risposta nel vuoto. Non sono le troppe opzioni che si affacciano in testa e l’incapacità di sceglierne una, è proprio la domanda che mi manda in tilt. La memoria si svuota e, di film, libri o gruppi, non me ne viene in mente nemmeno uno. Però se mi chiedi il momento più emozionante dei miei viaggi, io ce l’ho così vivo da raccontare che quando ci ripenso mi commuovo ancora. Tutto merito delle tartarughine in Colombia.
È probabile che io sia di parte e che le tartarughe vincano su tutto soltanto perché ce le avevo da piccola. I miei accettarono Tarta e Rugo in casa sicuri che sarebbero campate poco; invece, sono diventate grosse come padelle e gli ho voluto proprio un gran bene. Così, anche da adulta, le tartarughe d’acqua mi fanno sempre effetto.
Siamo partiti da Bahía Solano seduti sulle panche interne di un Apecar bianco che non schivava una buca neanche per sbaglio. Destinazione: El Valle, a 17 chilometri. La via che si fa strada tra la foresta pluviale è così bitorzoluta, fangosa, a tratti allagata, che ci vogliono due ore di sbatacchiamenti e sguardi perplessi. El Valle, una volta raggiunta, la scopriamo mischiata con la natura intorno. Le stradine sono sterrate e pozzangherose, le case di legno con tetti in lamiera. Lì la foresta, quando incontra la cittadina, non si ferma: le gira intorno. Gira intorno a case, minimarket e intorno a uomini e donne sornioni che camminano placidi in pantaloni corti e canotta. Poi la foresta, finito il giretto, raggiunge la spiaggia - dove abbandona un paio di tronchi - per gettarsi a picco nel mare.
A El Valle noi coltiviamo la pazienza, aspettando a lungo un passaggio verso il centro che salvaguarda le tartarughe marine. Il passaggio arriva sotto forma di un omaccione che ci carica in due su una Yamaha e parte scoppiettando per il sentiero fangoso. Ridiamo tantissimo perché io non pensavo che su quella motoretta ci saremmo stati in tre. E invece c’entriamo e la moto avanza, tra stradine sterrate e ponti sospesi. Quando finalmente raggiungiamo la spiaggia, sono convinta che siamo arrivati. Lo ringrazio e faccio per scendere, invece si continua sul bagnasciuga. Io in moto in spiaggia non c’ero mai stata e mi complimento per l’equilibrio.
Guardo a sinistra e la giungla che avanza, poi guardo a destra e la vastità del Pacifico, mi tengo stretta alla maglia del tipo e non riesco a smetter di ridere.



Quando mi ero organizzata con i responsabili del centro, avevo in mente un laboratorio moderno - con scienziati, biologi e tutto il resto. Non so perché pensassi a vasche trasparenti in asettici laboratori bianchi. Il centro invece è una palafitta che ha un orto, come quello in cui da noi coltivi i pomodori, e lì vengono sepolte le uova delle tartarughe marine. Ogni covata è contraddistinta da un tappo: stesso colore, stesso giorno di raccolta. I responsabili sono una coppia che tutte le mattine scandaglia la spiaggia e poi mette al sicuro le uova. Ogni nido tendenzialmente contiene un centinaio di morbidi ovetti. Il guscio è elastico e la consistenza è cuoiosa, fatto apposta per resistere alla pressione di terra e di sabbia. Mettendole al riparo nel loro orto, hanno la certezza che tutte le uova si schiudano - senza che vengano distrutte o mangiate.


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Dopo le uova, arriva il loro momento: le vivacissime protagoniste, ammonticchiate in un secchio azzurro.
Muovono le pinnette esagitate che sembra già nuotino nella loro testa. A vederle così, sprizzanti di fragilità e bellezza, io sono rapita. Fisso i guscetti incredibilmente minuscoli, il grigio scurissimo che si affanna di vita, e potrei stare lì per sempre - ammaliata.
Così mi viene affidato il secchio, forse mi vedono ipnotizzata e pensano io sia una tipa affidabile, e mi ritrovo con la responsabilità e l’onore di trasportarle sul litorale. Proprio io che rompo un bicchiere al giorno, inciampo sui miei piedi e sbatto la testa; tutta orgogliosa attraverso la spiaggia proteggendo il secchio, a costo della vita.
Prima di toccarle ci sciacquiamo con acqua di mare per rimuovere ogni residuo di saponi o lozioni che per loro sarebbe fatale. Ecco il via: possiamo sollevarle e appoggiarle a terra, più velocemente possibile. Devono partire in contemporanea, così fratelli e sorelle potranno indicarsi la strada a vicenda.
Allora sollevo quel peso irreale e mi affretto a lasciarle andare. Una alla volta e ogni volta è un saluto. E intanto vedo le zampette, come pale, lottare stremate contro la sabbia. È una battaglia impari e non ce la fanno, perché la spiaggia è così immensa e loro sono così impercettibili.
Quando le prime raggiungono l’onda, sento il sollievo pronto a partire, però è un’illusione perché - quasi tutte - vengono spinte con forza dall’acqua e si ritrovano indietro, in testa coda, e devono cominciare di nuovo a sbracciare. Io sono lì a pregare dai che ce la fai con l’ansia che cresce, gli occhi lucidi e non posso aiutarle, se non col pensiero.
È cruciale che quei metri li fatichino tutti. Il meccanismo è mezzo ignoto, ma si sa che è in quei minuti di sforzo e tormento che imparano per sempre a memoria la spiaggia dove sono nate . Si imprimono in testa l’odore speciale e il campo magnetico della loro costa, così poi da adulte - 10 anni dopo - riescono a tornare proprio lì a deporre, a loro volta, le uova.


Questa vicenda a me pare un miracolo e me le immagino ora piccolissime, turbinare le pinnette nei vortici neri delle correnti oceaniche, con mille bocche pronte a mangiarle.
E poi chissà come diventare grandi, migrare seguendo le rotte e scampare, può darsi, alle microplastiche con cui le avveleniamo. Ritrovarsi un giorno tartarugoni, a decine di migliaia di chilometri da lì, avvertire forte il richiamo di casa e attraversare gli oceani per ritornare.
Non posso fare a meno di pensare sconfitta che nel frattempo la spiaggia sarà forse sparita e ci avremo costruito un resort o un benzinaio. E me le vedo, disorientate e deluse, deporre le uova in questo mondo in sfacelo.
Si stima che su mille tartarughine, solo una riesca a crescere e poi tornare. Noi ne abbiamo liberate un centinaio, quindi delle mie forse non ce la farà nessuna. Però in quel momento ci credo davvero, mi sforzo, le incito e zampetto con loro. Ognuna che viene inghiottita nel mare è una gioia. Una possibilità in più e una vita che inizia. Quando anche la più ritardataria sparisce laggiù, io coi lacrimoni rimango a guardare l’oceano implacabile e troppo grande per loro.
Però quella forza nelle pinne che spingono, quell’energia e la sopravvivenza istintiva, l’occhietto scuro che punta indomito il mare, mi dicono che, in fondo, si godranno il viaggio.
E dentro di me mi riprometto che tra 10 anni sarò lì di nuovo, con l’emozione di aiutare le figlie e con la speranza di rincontrarle.
Gaia
Regalami un cuore se hai letto la storia di oggi! Grazie!
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Ci vuole caffeina per scrivere:
Ci vediamo mercoledì prossimo, con l’ultimo racconto colombiano. Direttamente da Medellín.
Mi sento fortunata di aver ascoltato questa storia direttamente da te, ancora prima di leggerla qui. Anche su carta, però, l’effetto è potente e mi lascia lo stesso senso di libertà e ispirazione! La tua capacità di portare il lettore nella storia, di farlo vivere quei momenti, è preziosa. Non è solo un racconto, è un invito a sentire la forza delle piccole libertà, a vedere la bellezza nei dettagli più semplici... curiosa di scoprire dove ci porterai ancora!
Questa volta hai superato te stessa... Il tuo racconto è da leggere in una classe di seconda/terza elementare, per far riflettere i bambini sulle problematiche ambientali. Quanti spunti di riflessione! E le tartarughine sono le involontarie protagoniste che prendono il cuore di chi legge. Le tue lacrime sono anche le nostre!