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Il rientro nel traffico incontenibile di Ulan Bator (UB come la chiamano qui) avviene al grido di un “ve li faccio vedere io due anni in moto a Milano!”
Passare col rosso a UB? Fatto. Contromano? Fatto. Scorciatoia sul marciapiede? Fatto. Svicolare tra le colonne di auto e camion bloccati strisciando i borsoni laterali? Fatto e rifatto. La differenza con Milano è che nessuno ti lancia un “figa” indignato dal finestrino. Anzi, quando ci riconoscono occidentali, ci fanno un cenno di saluto ammirato.
Lo smog della città è una coltre pesante e si intensifica così tanto d’inverno che a volte gli aerei non possono atterrare. Ulan Bator è prima in classifica tra le capitali più inquinate e più fredde del mondo. Due primati che non la rendono molto invitante, ma il fine settimana che ci passo io è estivo e, in attesa del rientro in Italia dopo le settimane di moto, è una pacchia e una scoperta.
Il primo impatto è quello di una modernità sconcertante e improvvisa: un attimo prima passi per un villaggio incartapecorito, primi cittadini capre e cani randagi, un minimarket manco a pagarlo, e poi qualche chilometro più in là sei al centro di piazza Sükhbaatar con i palazzi imponenti delle istituzioni e grattaceli specchiati. C’è chi cammina veloce vestito da ufficio e giovani in jeans, sneakers e gelato alla mano.
Sul lato nord della piazza c’è il parlamento dove siede un Gengis Khan gigante: sarà perplesso perché quando ai suoi tempi ha esteso l’impero e conquistato mezzo mondo a cavallo non era questo il risultato che si stava aspettando.
Però lo guardo bene e sorride piacione, benedice gli astanti e il mondo moderno.
Grazie mille di essere qui! Hai perso le prime le altre tappe tra le steppe mongole? Le trovi TUTTE QUI.
Ai lati severo stile sovietico e torri residenziali in cemento, altissime e tristi. Non c’entra niente con la natura che ho visto, non c’entra niente con il mio viaggio. E però mentre mi regalo giornate da turista tranquilla (visito musei, scopro ristoranti e mi godo una serata al Jazz Club con i ragazzi locali) le contraddizioni le scovo divertita perché la Mongolia che ho conosciuto sbuca prorompente e indiscreta a ogni angolo.
Tra le vie congestionate di macchinoni, non è così raro incontrare gente a cavallo che dalle campagne arriva in sella e frustino a sbrigare le sue commissioni.
E ancor più buffa è la città dall’alto perché, appena più in là delle vie centrali, iniziano quartieri popolari con case e baracche che nel cortile – guarda un po’ - hanno montata una solida Yurta. Nel giardino c’è l’immancabile cane e gli abitanti sputacchiano e urinano come fossero in piena campagna.
Ancora più in là spariscono proprio le costruzioni e c’è una periferia fatta di Yurte. Non sono più nomadi lì, quello è chiaro, ma evidentemente la loro tenda rimane la tradizionale scelta migliore.
Io la vista dall’alto ce l’ho avuta grazie al parco divertimenti cittadino.
Assicurata al mio posto con un nastrino e una fibbia - una cintura finta uguale a quella dei sedili di aereo – ho notato prima quei contrasti avvincenti e poi a testa in giù ho urlato tutto il mio disappunto, perché sono ormai troppo vecchia per gli ottovolanti.
Credo che le mie grida ancora risuonino tra la ruota panoramica e le montagne russe di UB.





Il museo di arte moderna è illuminante, ha tutti gli stili che trovi da noi: cubismo, impressionismo, macchiaioli, pop-art, però fa ridere perché siamo in Mongolia e i soggetti dei quadri sono solo cammelli e cavalli.



Poi tra i palazzi della finanza spunta beato il mausoleo buddista. Buddha splendenti, templi colorati, maschere ringhianti, Sutra cantati e preghiere in ginocchio: provano a spiegare a chi corre intorno che il vero Dio non è il Dio denaro, ma il Nirvana che coltivi dentro.



In un bar mi siedo immusonita, non sono contenta perché mi preparo al rientro, scorro le foto e guardo le chat. In questi giorni in mezzo alle steppe ogni tanto mi è arrivato un messaggio: qualche amico, qualche collega, qualcuno dall’Italia a farmi un saluto e proiettarmi in un altro mondo stridente, così meno vero di quello che vivo. Intorno a me c’era prateria sconfinata e mi pareva di star lì da sempre. Invece solo poche settimane che sono partita, tra un niente torno al reale e il viaggio rimane un mezzo sogno passato.
Torno alle strade che sono strade e alle case che sono case.
Alle comodità che in fondo mi mancano, perché non è che voglia negarlo: io sono figlia legittima del consumismo sfrenato.
Torno ai negozi che sono tali, all’ordine Amazon che arriva domani e alla routine che si ripete. Torno agli armadi coi vestiti veri, invece del borsone legato col laccio.
Torno a cercare di far bene il mio lavoro, gestire situazioni che sembrano drammi e dinamiche politiche da intrigo di corte che quando sei dentro ti pare normale.
Mi ci ributto con l’impegno che posso, ma la vera me rimane avvinghiata sulla sella dietro di una moto che romba e traballa nel mezzo di steppe nel centro di nulla.
La vera me ha lo sguardo che spazia tra mandrie di cavalli che fanno il bagno, Yak bonaccioni che brucano l’erba e aquile che planano cacciando scoiattoli.
La vera me è quella che è in viaggio, senza sapere dove dormirà quella notte.
Torno al lavoro da domani e va bene, ma la vera Gaia sta dentro la Yurta.
Gaia
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Grazie Gaia per questo splendido racconto! E' stato un piacere leggerti: mi è sembrato di essere li con te!
E cosí ho concluso il mio viaggio in Mongolia, vista con i tuoi occhi e trasferita nei miei! Bravissima ad esprimere le tue suggestioni!