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O la ami o la odi.
Questo si dice dell’India ed è un cliché così abusato da sfiorare il ridicolo. Niente nella vita è tutto bianco o tutto nero, figuriamoci un Paese immenso, con storia millenaria, centinaia di lingue e decine di religioni.
Poi, però, ci sono andata.
E quando sono tornata, mi hanno chiesto: “Allora com’è l’India?” Nella mia testa sono partite a ruota libera le immagini. Il traffico di Jaipur e le lacerazioni di Old Delhi, palazzi sfavillanti e macachi sui fili, mucche sul marciapiede e pollo piccante in ciotoline di rame. Una scena dopo l’altra, alternate in un vortice caotico come la nazione stessa, impossibile rallentare per descriverle a parole. Le immagini andavano troppo veloci anche per dargli un senso. Allora ho capito. E, anche io, non ho potuto far altro che rispondere: Sai, l’India, o la ami o la odi.
Io? La amo.
L’India puzza, ma del puzzo vero che fanno i fumi delle spezie sopra fogne e immondizia. L’India è rumorosa, ma un frastuono che l’ora di punta in un incrocio di Roma è una ninna nanna tranquilla. L’India fa male al cuore, di quel male che solo una bimba malata, che mendica due spicci in mezzo alla polvere, può provocare.
La gente indiana ti tocca, ti parla, ti circonda, ti sputa sui piedi, ti invita a seguirla, ti scatta le foto, ti offre del cibo e ti rivela che sei claustrofobico, ma non lo sapevi.
Eppure, quando mi chiedono quale sia stato il mio viaggio più bello, non ho dubbi. E quando sento qualcosa che mi parla di India, mi batto due volte il pugno chiuso sul cuore, come a dire “è ancora qui”.
Quando sono atterrata a New Delhi, arrivavo da una settimana di moto in Ladakh, nell’Himalaya indiano. Un’ora prima: panorami immensi e aria rarefatta. Un’ora dopo: un muro di facce, di clacson e tuk-tuk.
La mia prima certezza, appena ho messo piede nella metropoli indiana, è che avrei dovuto combattere per ogni centimetro, per la mia direzione e per il mio ossigeno. Lottando in strade così affollate che persone, animali e mezzi di trasporto sembravano occupare tutto lo spazio, pure in verticale. Dopo poco ho capito che la lotta era impari e un unico modo c’era per vincerla: lasciarsi trasportare.
Anzi, lasciarsi attraversare. Dal caos, dalla miseria e dalla bellezza.
Delhi è fatta a strati, come la sua storia. Templi induisti si alternano a moschee e minareti. Il passato lo leggi nei muri: nei fiori di loto dell’induismo, circondati da incisioni del corano in versi. Nelle statue di Shiva, dio distruttore e rigeneratore Indù, ancora imponenti, ma senza testa. I sultani musulmani le hanno decapitate: per rispetto, le divinità non si rappresentano, nemmeno quelle degli altri.






Poi ci sono i resti dell’impero Moghul, con i giardini persiani e il marmo bianco. Hanno lasciato l’Humayun’s Tomb: sfarzoso, simmetrico, perfetto e pulito, alle porte di una baraccopoli e di una discarica.
E a seguire gli inglesi, con i loro vialoni, i palazzi coloniali e le piazze geometriche. I pezzi si accavallano nel sottofondo di smog e di clacson che urlano, in una città che è per tutti e per nessuno.
Poi, all’angolo di un mercato vociante, compare l’edicola buddista con le bandierine e il Buddha seduto a gambe incrociate. L’incenso brucia e si mescola all’odore dei ceci bollenti, immersi in pomodoro, aglio e cumino.
L’altro cliché tipico, quando si parla di India, è quello degli estremi. Opposti che convivono e che ti spiazzano. Anche questo, però, è vero e colpisce forte allo stomaco.
I palazzi sono magnifici, monumentali, incantatori.
La povertà è disumana, disarmante, pervasiva.
Quando entro a Old Delhi, il primo impatto è di scappare, girare sui tacchi e tornarmene indietro. Allontanarmi dalle baracche e dai topi. Lontano dai bimbi sporchi e ciondolanti, dai vecchi amputati e dall’abbandono straziante. C’è umido, caldo e un odore fortissimo. C’è lo spettacolo infame dell’ingiustizia.
Poi ci faccio l’occhio, il naso e lo stomaco. Ci faccio pace. Mi dico che non sono lì per giudicare la vita di chi conosce quella soltanto e tranquillo ci vive dentro.
E poi a Old Delhi c’è il mercato storico, che esplode di spezie, di stoffe e di cibo. Un groviglio di vicoli da perderti dentro. C’è il Red Fort di arenaria rossa, palazzo Moghul e patrimonio UNESCO. E c’è la moschea Java Masjid, che è la più grande dell’India tutta. Mi faccio forza e levo le scarpe - per salire scalza tra piccioni e corpi distesi - lei emerge: solenne, immensa e splendente, su quel disastro.







Esco dalla moschea coi calzini anneriti, la testa che scoppia e il sole che brucia. È solo l’inizio, solo la prima giornata. Non ho capito niente, sono disorientata, un po’ sbigottita e di sicuro ammaliata.
E forse il senso è quello soltanto: sentirsi vivi e sguazzarci dentro.
Gaia
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Uno schiaffo forte, senza dubbio! Presumo che ne arriveranno altri...li aspetto con ansia, visto che li prenderò comodamente seduta sul divano, credo, infatti, che non andrò mai in India. Fortunatamente ci sei tu che ce la racconti tanto bene!
Per come la racconti e per quello che sappiamo per una serie di motivazioni non fa per me...morirei!! Allo stesso tempo penso che sia magnifica...per una serie di motivazioni. Grazie!!