“Tranquilla, tranquilla, tranquilla!”
Quel tranquilla a ripetizione non fa presagire niente di buono. Però, nel paio di secondi che passano mentre mi rimbomba nel casco, sento la moto inclinarsi e le ruote perdere aderenza, non ho potere su quello che accade: posso solo seguire le istruzioni e stare tranquilla.
La mia prima caduta dalla moto in Mongolia, e prima caduta dalla moto della mia vita, è da principesse. Atterro - tranquilla - su una montagnola soffice. La sabbia ci ha fatto scivolare e poi ci ha protetto. Voleva solo mettere in chiaro chi comandasse in quel pezzo di mondo dimenticato in mezzo a una cartina geografica.
A fine giornata ci stavamo sentendo un po’ troppo invincibili e ci hanno pensato le steppe a ristabilire le regole: sono terre algide che di estate si ammorbidiscono appena, ci permettono di attraversarle, ma con la cautela dovuta a percorsi martoriati dal gelo di inverni infiniti e con cui c’è poco da scherzare.
Ciao! Eccoci al primo racconto della Mongolia, grazie per essere qui con me! Se sei iscritto da poco, puoi farti un giro tra i viaggi passati. Qui trovi quelli dalla foresta amazzonica, dall’Himalaya, dall’Egitto e da Pechino. Fammi sapere che ne pensi! :)
A finire a terra mi preparo dalla mattina, da quando siamo partiti con la Shineray 200. La motocicletta cinese che una signora premurosa ci ha affittato a Ulan Bator. Ci ha dato un sacchetto tutto fare: camera d’aria di ricambio, pompetta, chiavi inglesi. Poi due sacche gialle da legare ai lati e una tanica d’olio perché la moto è nuova di pacca e dobbiamo fare un cambio completo dopo 500km. Qualcuno vi aiuterà in un villaggio - ha assicurato alle nostre facce perplesse.
Per tutto il tempo mentre prepariamo i borsoni, riducendo al minimo il peso e il volume, c’è un uccellaccio del malaugurio francese che continua a tirarcela male.
“Io sono appena tornato e mai, giuro, lo rifarei. Che giro fate? Quanti giorni state?” Ce lo fa indicare sulla cartina. “Ah, andate lì!? Lì la strada è terribile. Tutto sterrato, buche grandi che sono voragini.”
Cerco di ignorarlo e infilo le ginocchiere, fascetta al collo, protezioni alla giacca.
“Voi siete motociclisti anche in Italia? Non vuole dire niente, non vi fidate, che se poi piove andate per terra. Con me c’era un biker americano, ex pilota professionista, ha steso la moto 11 volte.”
Cerco di non rispondere perché risponderei male, saliamo in sella e siamo pronti a partire.
Ci allontaniamo col francese alle spalle:
“Fate attenzione e buona fortuna, io ve lo dico: ne avrete bisogno.”
Dieci minuti dopo siamo sullo sterrato, la modernità giovane di Ulan Bator alle spalle e lo smog cittadino avviluppato alla gola che si scioglie a ogni metro di più.
E a ogni metro spariscono gli appigli per gli occhi, dopo poco spariti anche gli alberi, solo distese di verdi sfumati e saliscendi sconnessi e fangosi. È il primo impatto con gli orizzonti sterminati di cui poi diventerò amica.


La strada all’inizio è terra battuta e poi neanche più quella. Mentre Lorenzo tiene dritta la moto, io sono addetta a indicare la via. Ho il GPS sul cellulare e mi sa che sbaglio percorso perché, ormai dopo ore dalla partenza, un cartello ci accoglie: BASE MILITARE. Non era quella la destinazione. Dopo il cartello però i prati continuano identici, forse è solo un vecchio segnale. Tornare indietro non è comunque un’opzione: quale strada avrai davanti non lo sai, ma sai bene quanto fosse sconnessa quella alle spalle e di sicuro non vuoi farla due volte.
Dobbiamo arrivare al parco di Hustai, una riserva naturale che ospita i Tahki: l’ultima popolazione di cavalli davvero selvaggia. Bellini i cavalli per carità, ma che fatica per arrivarci. Ci ritroviamo a scendere per una pendenza eccessiva e smonto di sella per non pesare sulla moto che pattina. La guardo allontanarsi e sento che fa strani rumori: scoppietta forte, produce dei botti, forse striscia qualcosa, chissà.
Quando capisco è troppo tardi, i rumori non li fa la moto: quelli lì sono spari.
I militari non sparano a noi, già è tanto, ma si stanno allenando in un campo più giù. Noi li vediamo e loro ci vedono: in quattro corrono su. Cerchiamo di dirgli che siamo turisti, che ci siamo persi, che quella salita all’indietro non possiamo rifarla. Il traduttore di Google ci assiste male e non riusciamo a comunicare. A me i militari fanno timore anche se non ho fatto nulla di male. Guardo il cellulare per vedere se ho rete, chissà dov’è l’ambasciata italiana, e sullo schermo con un cuoricino c’è l’anteprima di un messaggio WhatsApp.
“Stai dalle parti tue!”
Dice il messaggio che è di mia mamma. Stai dalle parti tue è una raccomandazione, è il suo modo per dirmi di stare attenta e non infilarmi in strani guai. Beh, mamma, non sono esattamente dalle mie parti, ma nemmeno propriamente nei guai.
Quelli arriveranno e arriveranno famelici, in su per giù 10 minuti.
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Intanto, ancora di salvezza, ci raggiunge un militare che parla inglese. Chiede e richiede l’itinerario, generalità, data di rientro e io devo pure spiegargli che non ho il passaporto, perché è servito come cauzione per poter noleggiare la moto. Ci fotografano e registrano tutto. Bene! Sono in Mongolia da meno di un giorno e già sono stata schedata. Alla fine lo convinciamo, non siamo spie internazionali e abbiamo l’okay per finire la discesa e passare in mezzo ai loro container. Arrivati in fondo - ci spiega - prendete a sinistra, incrocerete la strada maestra e sempre avanti per un’oretta fino al famoso parco con i cavalli.
Ringraziamo e ci allontaniamo. Il fondo stradale è sempre lo stesso - sdrucito e pendente - e non si può andare di fretta, ma con un sollievo che svuota i polmoni attraversiamo compiti la base militare.
Dopo 20 secondi, sento abbaiare.
Un cane gigante compare a destra. Scende veloce e perpendicolare: punta diretto su di noi. È una furia ringhiante che si avvicina, troppo veloce per essere un cane, io le razze non le conosco e comunque mi pare un leone. Nero, muscoloso e inferocito, la testa grossa che è un tavolino.
“È un cazzo di Rottweiler!”
“Oddio, davvero!? Vai, vai, vai, vai! Ci sta raggiungendo.”
Vorrei urlare o chiamare la mamma, ma sto ammutolita a fissare il cane.
“L’abbiamo staccato? È rimasto indietro?”
“Tu vai più veloce, tieni la moto!”
“Sì, ma non posso girarmi, lo abbiamo staccato?”
“No. Tieni dritta la mano. Oddio, tieni la moto.”
Io non so come dirlo che è più vicino di prima e manca un soffio che ci raggiunga.
La moto sobbalza andando a zig-zag, schiva le rocce, prende le buche, ma rimane in piedi e va veloce che di più proprio non può. Intanto il cane ha scartato a sinistra, aspetto che salti e trattengo il fiato. Ora ce l’ho a portata di piede, ma se tento il calcio sbilancio l’assetto e come minimo gli porgo un appiglio. Non posso far altro che restare aggrappata, occhi fissi nei suoi assatanati e in quella colossale bocca di odio ringhiante. Questo di sicuro è un cane soldato, addestrato a proteggere la base. Dobbiamo saltare la svolta a sinistra che altrimenti ci acchiapperebbe e io continuo a tenermi appigliata, raccomandandomi di non far cadere la moto. Dopo un tempo che pare infinito, quei denti giganti rimpiccoliscono, sono un po’ meno a punta, sono un po’ più distanti.
“Sta rallentando!”
E solo quando diventa una macchia nera lontana, capisco dal mio respiro sfibrato che devo aver perso dieci anni di vita. La svolta giusta l’abbiamo perduta, ma comunque seguendo le indicazioni del soldato ci orientiamo e, a fine giornata, ci ritroviamo sulla strada sabbiosa che vi ho raccontato all’inizio e che, con garbo e fermezza, ci butta per terra.
Troviamo il campo dove dormire e la proprietaria che ci prepara la Yurta ci chiede se prima di cena andremo in escursione a vedere i cavalli.
Ci guardiamo. La nostra dose di fortuna per oggi è sfruttata e direi che siamo partiti col botto. Se tanto mi dà tanto là fuori ci aspettano stalloni mordaci e giumente carnivore. E non escludo che il Rottweiler assassino nel frattempo ci abbia raggiunto.
Mi chiudo nella Yurta e lo dichiaro: buonanotte a tutti, il primo giorno è concluso.
Gaia
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Grazie per avermi portata in Mongolia, io però preferisco stare dalle mie parti ! (Inutile dire che sei bravissima...)
Che coraggio.....povera mamma che ha letto questa disavventura per fortuna finita più che bene.....grazie per i tuoi racconti♥️