PERSA
Quando l'inseguimento diventa routine, il percorso si confonde e la strada prende il sopravvento, sai che la meraviglia resta – e il cane pure.
[4 min lettura]
Ci siamo persi. Di nuovo. E che intorno sia splendido mi rassicura solo finché è mattino, perché posso raccontarmi di star scoprendo posti nuovi che altrimenti avrei saltato. Da dopo pranzo in poi però non va bene, perché il tempo corre e prima di buio mi devo ritrovare. Di pomeriggio non sono più all’avventura e immersa nella bellezza: sono solo persa.
Persa. È la nuova condizione esistenziale con cui ormai convivo pacifica perché so di avere tutte le scusanti. Funziona così: ho un percorso tracciato su Komoot - l’applicazione che usiamo per orientarci - però quella strada che c’è sullo schermo, non c’è davanti a me nella realtà, perché quell’anno non l’hanno fatta. La neve si è sciolta diversamente stavolta e dove ci dovrebbe essere un percorso nell’erba, c’è invece un fiume, un lago, un cratere o cani infuriati.
Perciò ogni volta cambiamo direzione, a volte studiando il posto migliore per attraversare il corso dell’acqua, a volte di proposito perché la mandria di puledrini non me la posso perdere e a volte scappando col cane alle calcagna.
Chi mi conosce sa che sono gattara, però anche i cani mi piacciono un sacco. Meglio, mi piacevano prima di conoscere quella belva invasata della Mongolia. Si chiama Khottosho, che tradotto significa lupo domestico, ed è una razza di cane pastore nero e marrone tipico di qui, imbestialito nel DNA.
Nokhoi khor!
Significa “tieni il cane”, è la prima frase che ti insegna la Lonely Planet e basta poco per capirne il perché. La Lonely Planet dice anche che l’ospitalità mongola è celebre e che ti accoglieranno volentieri nei loro accampamenti: basta dirgli di tenere il cane. A chi dovrei dirlo non mi è però chiaro, visto che il cane ti attacca a prescindere a 300 metri dal campo e il padrone non c’è. E corre instancabile e gigante, a volte sono in coppia e un pomeriggio pure in tre. Comunque, poi ci si fa l’abitudine, l’inseguimento giornaliero diventa routine. È un po’ come il traffico del casello la mattina a Scandicci, lo sai che ti tocca e non ti lamenti; quindi scappiamo e Nokhoi khor anche a te.
Questo qui sotto che vedete in foto, grosso quanto me, è l’unico bravo cane di tutto il paese. Lui si salva perché è un cucciolotto, per tutti gli altri: odio profondo.


Ciao! Stai leggendo l’ultimo racconto dalle steppe. Hai perso le prime tappe? Le trovi qui sotto:
La strada di oggi per Kharkhorin – l’antica capitale dell’impero mongolo - è passata più o meno così:
“Okay, ho capito! Guarda quel bosco, forse è questo che c’è nella mappa. Sì dai me lo sento, ora vai verso destra.”
“Ma destra dove che non c’è niente?”
“Eh dai proviamo, lì l’erba è più bassa.”
“Cane. Cane. Cane. Tieniti!”
E scappa per un chilometro a sinistra.
“Okay è sparito. Dai riproviamo, ora gira a destra.”
“Ma destra dove che c’è una montagna?”
“Beh, sali su così vediamo dall’alto.”
“No, niente, si scivola è troppo pendente.”
“Boh, allora forse passiamo da sotto.”
“Sì, ma se si ingrossa il fiume ci rimaniamo.”
“Uh, guarda c’è un pastore in moto: ci fa cenni strani, dai segui lui!”
E segui il tipo per 5 minuti - più che seguire è un inseguimento visto che corre che è una saetta - finché lo raggiungi dove c’è un guado con un ponte di legno consunto e aspetta lì premuroso e attento che riusciamo a traversare incolumi.
“Hai visto che gentile che ci ha indicato la via? Lo diceva la Lonely che erano ospitali. Ci ha aiutato così, spontaneamente!”
“Sì sì gentile non si discute, grazie a lui siamo di qua, ma Kharkhorin era di là.”
“Cane. Cane. Cane. Tieniti forte!”
Oddio Signore, voglio un fucile.
L’orientarci a sentimento ci ha regalato sorprese e incontri bizzarri, come la ragazza coi vestiti tradizionali che ci lancia addosso pulviscolo grigio che pare sia di buon augurio. Oppure la coppia ridanciana che gira in macchina con la bottiglia di vodka e che becchiamo in due posti lontani e giorni distinti. Quasi ci sequestrano per assicurarsi che apprezziamo tutti i dintorni. Una volta ci trascinano con loro a scoprire le fosse vulcaniche che effettivamente avremmo saltato e la seconda volta ci regalano pigne, dice si mangino i pinoli lì dentro, io mi fido ma è tutta resina. Comunque ringrazio, sorrido e ingoio, la pigna donata non si rifiuta.




L’ultimo guado, prima di Kharkhorin, è un letto di un fiume smisurato e fangoso.
Lì si capisce che non ce la faremmo e troviamo una yurta per chieder consiglio. Gli adulti della famiglia però non ci sono e tre bimbe more ci guardano allibite, a esser marziani ci avrebbero accolto meglio, e senza complimenti si chiudono dentro. Riproviamo più avanti con un accampamento e suoniamo il clacson per attirare l’attenzione, speriamo in qualcuno che ci possa aiutare, indicare il punto con l’acqua bassa. Però niente, è vuoto, non c’è manco il cane, vai a capire dove sono tutti. Alla fine, ci decidiamo e andiamo da soli, dai motocicletta per oggi basta, stattene dritta e non fare scherzi. Si avanza.
Lorenzo sospira e melodrammatico annuncia:
“Se muoio non ho rimpianti, ho avuto una vita piena.”
Dovrei rispondere che per morire affogati ci vuole l’impegno, se proprio va male ci rompiamo una gamba. E dovrei dire che pensi a guidare, non è per niente quello il momento di star lì a tirare le somme della sua vita. Però là nel mezzo mi viene naturale, mi sento teatrale e quindi mi adeguo:
“Anche io, senza rimpianti!”
E chiudo gli occhi come ho imparato, perché alle paure io vado incontro, però solo e soltanto con gli occhi chiusi. E invece manco la soddisfazione del non vedere, perché dopo 10 secondi vengo riscossa:
“Scendi, scendi, scendi, veloce scendi giù. Spingi, spingi, spingi!!!”
Siamo impantanati. Quindi riapro gli occhi, scendo al volo impacciata, non cado - che per me solo quello è un miracolo visto che io cado sempre, anche in piedi e in città - e inizio a spingere da dietro la moto.
Mi infradicio un po’, poi slitto e sbuffo, ma ce la facciamo e sono orgogliosissima del mio contributo che mi vale il meritato titolo di copilota.






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Vittoriosi ci fermiamo a sgranocchiare barrette, approfitto per fare stretching e rimirare: aquile giganti che planano sopra e quel cielo stranissimo che non conoscevo. Rispetto al nostro pare più basso e in contemporanea però anche più largo, fa un arco strambo che racchiude lo sfondo e una luce incandescente che illumina i prati. Forse è l’illusione ottica data dal non avere confini, dall’orizzonte lontano e senza un appoggio. È la magia che mai faccio a casa: l’adrenalina che mi fa godere il presente, senza pensare a domani o a tra un’ora. Solo natura incombente e nulla pienissimo.
Gaia
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Ti aspetto mercoledì prossimo, con un ultimo racconto dalla Mongolia, questo però dal caos cittadino di Ulan Bator.
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Coinvolgente! Sembra di essere lì 😁
Mai letto diario di viaggio più efficace!
Ma in Mongolia non andrò mai, sono terrorizzata dai cani....