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Osservo il cartello: ci sono disegnate le impronte che potrei incontrare lungo il percorso. Capriolo, lupo, lince, capra, cinghiale e orso. Orso? Orso. No, l’orso no! Non mi piace, non voglio incontrarlo e nemmeno vederne le impronte. A me l’orso fa paura. Ho l’ansia anche quando vado in escursione sulle Orobie, perché ho il timore, anzi la certezza, che uno sia sceso giù dal Trentino appositamente per me. Figuriamoci la voglia che ho di beccarlo in un bosco armeno lungo il sentiero per raggiungere Tatevi Anapat: il monastero abbandonato sulla gola del fiume Vorotan, dove - si dice - abita un eremita isolato.
Prima di andarci non sapevo cosa aspettarmi dall’Armenia, la destinazione era venuta fuori un po’ a caso come ogni mio viaggio che sboccia dall’incrocio tra le date delle ferie che ho e i voli in offerta che mi suggerisce Skyscanner. Ora sono arrivata da qualche giorno, sto macinando i chilometri e ho capito bene che se c’è qualcosa che non manca in Armenia sono proprio i monasteri. Sono a centinaia, si somigliano tutti e ognuno è affascinante nel suo unicissimo modo.
Sperduti e arroccati nel mezzo del Caucaso, da millenni incorporati nello spigoloso paesaggio: penso siano arrivati lì prima loro delle montagne stesse. Maestosi e semplici si impongono austeri e mi spiegano che l’autorevolezza non si ottiene coi trucchi, né con la forza o con la superbia.
Come una guida che si guadagna il rispetto grazie all’integrità e dando l’esempio, loro stanno lì a raccontare che non c’è bisogno di affreschi o brillocchi per ispirarti e contemplare.
Io non cerco una connessione col divino e perciò non la trovo. Però se il mio scetticismo traballasse mai un giorno, il posto giusto sarebbe quello di certo.







Tutto ciò per dire che i monasteri sono ovunque in Armenia e Tatevi Anapat, che vogliamo raggiungere, sarà soltanto uno di più. Perciò, inoltrandomi nel folto del bosco, mi viene da dire che potrei farne anche a meno di rischiare l’incontro con la bestiaccia. Se poi l’eremita fa l’eremita è perché non ha voglia di vedere nessuno e chi sarei io per disturbarlo. E in più chi lo sa se c’è ancora davvero? Magari è scappato per colpa dell’orso.
Rimani ferma, rimani calma, evita movimenti bruschi e soprattutto non correre: non ricordargli che è un predatore. Vai via lentamente e non voltargli le spalle, parla piano e non guardarlo negli occhi. Se poi ti attacca: fingiti morta.
L’escursione è proprio un piacere: cammino e attraverso i ruscelli ripassando in testa le istruzioni basilari per la sopravvivenza. La gola del fiume l’avevo vista dall’alto quella mattina sulla funivia che è chiamata Le Ali di Tatev: dall’alto la natura selvaggia tra le scure montagne scoscese creava un senso di pace e mistero. Ora percepisco invece l’isolamento, però la meraviglia non si può negare.
Arriviamo.
C’è un cancello lasciato socchiuso: togliamo il chiavistello e siamo dentro. Un grande cortile con un pozzo centrale circondato da edifici diversi, l’accesso è libero a ognuno di essi. Le mura esterne robuste e spoglie, e i pezzi diroccati ci stanno a pennello. Una volta lì, la curiosità prevale e iniziamo a gironzolare, attraversiamo le celle dei monaci di un tempo, i corridoi umidi e i cunicoli bui. Poi la grande chiesa che, come tutte le armene, è pensata per evitare distrazioni terrene. In pietra grezza scura, intima e sacra, con volte e archi senza ornamenti.









In un anfratto in un lato del cortile troviamo il giaciglio del nostro eremita, fatto con coperte, qualche vestito ad asciugare, bottiglia, secchio, bacinella e piattino. Ci avrà sentito arrivare e non è rimasto ad aspettarci, nemmeno noi rimaniamo a lungo e lo lasciamo al suo silenzio e alla pace.
Lasciamo il mistero di quel mondo isolato richiudendo il cancello alle nostre spalle e ricominciamo la scarpinata. Ricomincio anche la mia cantilena per rassicurarmi di saper gestire il pericolo: rimani ferma, rimani calma, evita movimenti bruschi e soprattutto non correre. Se poi ti attacca, fingiti morta.
Ciao! Stai leggendo il primo racconto dall’Armenia, dove sono stata nell’aprile del 2023. Grazie per essere qui! Continua per leggere il finale. PS. Sei iscritto?
Guardo in cima alla salita che mi aspetta e, in mezzo al verde, vedo marrone. Non è marrone di alberi, quello è marrone di pelo bruno. Marrone enorme e si sta muovendo.
Mi blocco.
“Lo vedi lassù qualcosa che si muove?”
Io sono gelata, terrorizzata. Aspetto però che Lorenzo mi dica che sono ammattita e che è una pianta, che a forza di evocarlo sono suggestionata, ma quello lì è qualsiasi altra cosa. Non un orso bruno nel nostro sentiero.
Mantieni la calma, non fare movimenti bruschi, non correre. Non correre, non correre, non correre.
Lorenzo sgrana gli occhi e si blocca anche lui, io trattengo il fiato pronta alla fine.
“È un orso. Scappa!”
E attacca a correre indiavolato. Corro anche io più veloce che posso, in discesa e incespicando, così spaventata che non mi sento il cuore e consapevole che corro pianissimo.
“Corri. Corri. Corri! Ci sta inseguendo?”
Attraversiamo anche il fiume e mentre scappo non ci credo che davvero mi stia trovando in quella situazione. Dopo qualche minuto rallentiamo: dietro non c’è niente che ci rincorra, ma la paura è ancora più nera perché quello era l’unico percorso per tornare alla macchina. Nel fitto della vegetazione non sappiamo più dove sia l’orso. Io voglio armarmi e prendere un sasso, Lorenzo chiede se voglia fargli il solletico.
Iniziamo a ragionare sulla soluzione migliore per poter sopravvivere a quel pomeriggio, ma come la rigiri la vicenda è critica e non sappiamo dove trovare scampo. Il monastero e il suo cancello lontanissimi, la macchina in cima alla salita, al di là dell’orso. Sempre che l’orso sia ancora lì dove l’abbiamo lasciato e non compaia ruggendo e ringhiando da dietro l’albero che ho proprio lì accanto.
Ragiona che ti ragiona ci prendono i dubbi: ma tu almeno l’hai guardato in faccia? Io sforzo la memoria per ricordare. Ho visto la schiena e mangiava tra l’erba, poi mi viene il pensiero di avergli visto le corna.
Piano piano torniamo indietro, io per non sbagliare ho iniziato a tremare. Camminiamo lenti e silenziosi, sperando che lui non senta l’odore.
Quando lo vediamo di nuovo, è molto più piccolo di come pensavo.
È a quattro zampe e sembra mansueto, il marrone scuro è quello di un orso, ma pare tranquillo e rumina assorto.
All’ultima curva lo vediamo del tutto: quell’orso feroce era una vacca.
Gaia
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Ci vuole caffeina per scrivere:
A mercoledì prossimo, con la seconda tappa in Armenia!
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Che ansia, ci avevo creduto che fosse un orso ahah anche io ne ho il terrore
Ti ho cresciuta in mezzo agli animali e mi fai 'sti scherzi. Mah...