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Gli armeni hanno un orgoglio profondo per la loro terra e sono entusiasti quando c’è un turista che apprezza. L’entusiasmo che può dimostrare un popolo con la guerra alle porte, un genocidio nelle ossa, la diaspora dei parenti più cari, un territorio geograficamente isolato e l’economia povera che fa i capricci.
Capelli mori e folte sopracciglia, volto ovale, occhi scuri e fieri: sono felici che tu sia lì, ma non ti regaleranno una risata scrosciante. Anche i più giovani sono compunti, con l’espressione seria da nonno che ha vissuto la guerra e ora sta bene, ma ne ha viste di ogni e il passato ha il suo peso. Loro uguale: si trascinano dentro la memoria e la resilienza di generazioni.
Gli armeni sono orgogliosi del loro cibo e ne hanno tutto il diritto: Medio Oriente, Asia, Europa e Russia si tuffano e si mischiano in ogni piatto. Trionfo di sapori da spazzolare col “lavash”, il sottile pane morbido che è addirittura patrimonio UNESCO. Più di 6.000 anni fa, nella zona di Areni, c’erano già vere e proprie cantine con torchi e vasi di terracotta. Gli armeni si vantano della tradizione ancestrale e tutt’ora il vino è un simbolo principe della loro identità nazionale.
Da queste premesse il passo è veloce: il turista che arriva nella loro terra viene accolto con ospitalità, gratitudine e rimpinzato di cibo e di vino.






Si comincia dalla colazione, con banchetti da cerimonia e il vino - che a volte è vodka – offerto insistente a tutte le ore. È prodotto nelle loro vigne e quindi un “no, grazie” non è contemplato.
In realtà potrebbero non accettare la risposta anche perché non ci capiamo. La lingua armena è qualcosa a sé stante: 39 lettere che - viste scritte - sembrano solo U oppure U ribaltate. Pronunciate sono anche peggio, un attimo pare turco, quello dopo russo. Consonanti dure che rimbalzano su vocali aperte e confezionano una melodia tutta loro.
Però alla fine ho comunicato con tutti e questo è il racconto degli incontri del cuore. Un po’ bizzarri, un po’ commoventi, ma sinceri al punto che ci penso ancora.
Ma ciao! Stai leggendo il secondo racconto dall’Armenia. Grazie per essere qui! Sei iscritto?
Infatti ho ancora nel cuore il ragazzo ingegnere e il suo inglese perfetto con cui ha potuto spiegarmi quel senso di precarietà che scorgevo nei volti.
Lui e i suoi amici - studenti moderni, così uguali identici a un ragazzo nostro italiano - erano in attesa di abbandonare tutto e finire arruolati per l’ennesima guerra. Con l’Azerbaigian l’escalation saliva e lui era pure un ex militare. Intanto gestiva un bed and breakfast a Goris, le camere occupate da giovani russi nascosti, fuggiti da casa per evitare l’orrore, con l’Ucraina.
Sono disertori – ci spiegava – ma qui si chiude un occhio. Che ci vuoi fare? Ad ammazzare o morire nessuno ci dovrebbe andare.
E nel cuore ho i giovani pastori che lì per lì mi avevano fatto timore.
Giravamo a caso tra gli altipiani del Caucaso, le valli rugose e le gole scoscese, con sullo sfondo le montagne innevate. Dalla lamiera di un buzzicatolo erano comparsi due tipi loschi. Facce incupite e poco raccomandabili, ma ci facevano dei gran gesti sbraccianti ed era chiaro che ci chiamassero. Oramai eravamo nel campo che forse era di proprietà loro e gli siamo andati incontro, per educazione. Ci parlavano in russo perché ci vedevano turisti, ma quella lingua a noi proprio manca.
Ci hanno piazzato a sedere per terra, su sassi, stappando le birre che avevano da parte. Hanno tirato fuori un formaggio salato, fatto a pezzetti e adagiato sui sassi. L’aperitivo più assurdo che abbia mai fatto, a ridere e indicarci gli oggetti a vicenda, cercando di studiare la lingua dell’altro. Ho imparato l’armeno per dire montagna, per dire formaggio, poi birra e macchina. E pure cane, turisti e grazie. In quel momento non ci serviva un parola di più.
Quando abbiamo provato a partire, si sono impuntati che dovevamo aspettare. Con sforzo enorme a interpretare i gesti, abbiamo capito che attendevamo un animale - forse un cavallo. Alla fine era vero, è arrivato un branco di pecore condotto da un amico sopra un cavallo. Ce l’avevano portato per farci salire.
Poi è cominciata una sfida nuova: volevano proprio domandarci qualcosa e hanno iniziato a telefonare a tutti i compatrioti intorno al pianeta.
Gli armeni nel mondo sono 10 milioni, di cui 7 vivono all’estero - scappati via dal genocidio turco in avanti. I nostri nuovi amici ce l’hanno confermato iniziando a chiamare conoscenti ovunque, per trovare qualcuno che parlasse con noi. Da Parigi ha risposto un tipo che in francese ci ha spiegato ci stavano invitando da qualche parte per cena. Noi gli abbiamo detto che non potevamo: avevamo una notte prenotata lontano. Per niente soddisfatti dal nostro rifiuto, hanno concluso che dalla Francia avessero tradotto male e sono ricominciate le telefonate. Finché hanno risposto da Chicago e anche in inglese gli abbiamo spiegato che dovevamo proprio partire. Alla seconda traduzione si sono arresi, ce ne siamo andati tra abbracci, sorrisi e auguri vivissimi per il futuro.
Non li vedremo mai più, ma ho la certezza che lo strampalato incontro, pure loro, se lo ricordano ancora.





Siamo partiti perché una famiglia ad Areni ci aveva preparato una cena locale, qualcosa di tipico - ci avevano detto - qualcosa che loro mangiano sempre di domenica a pranzo. Quando arriviamo e troviamo pollo arrosto con le patate, è una bella conferma che tutto il mondo è paese davvero.
Dopo cena la figlia maggiore inizia a cantare e suonare la chitarra. Quando capisce che siamo italiani, parte con “Bella ciao” interpretata perfetta.
Una mattina mi son svegliato,
oh bella, ciao! Bella, ciao! Bella, ciao, ciao, ciao!
Una mattina mi son svegliato
e ho trovato l’invasor.
Siamo stretti su un divano, con la mamma orgogliosa che, tra una strofa e l’altra, ci spiega che quella bella ragazza la lascerà presto.
E se ne andranno anche gli altri suoi figli. Raggiungeranno qualche parente lontano, studieranno fuori e si apriranno la mente di informazioni e opportunità nuove. Però aggiunge che lei dentro di sé ci spera che tutti i ragazzi espatriati torneranno a casa un giorno, per aiutare l’Armenia.
Io guardo il fratellino moretto che a stento cammina. Lui non lo sa che ha il futuro segnato, al momento si fa solo un punto d’onore ad appiccicarmi addosso spicchi di mandarino mezzi ciucciati.
Appiccicami pure la tua saliva innocente e rimani bimbo più a lungo che puoi: avrai tutto il tempo per inscurire lo sguardo, sopportare ingiustizie e patire le guerre degli adulti del mondo.
È questo il fiore del partigiano,
o bella, ciao! Bella, ciao! Bella, ciao, ciao, ciao!
È questo il fiore del partigiano
morto per la libertà.
Gaia
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🎄 Mercoledì prossimo è Natale… Quindi le storie armene vanno in pausa e ti arriverà un racconto natalizio per l’occasione. Se mi leggi da un po’, saprai che non sarà esattamente romantico.
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Commovente, veramente commovente!
Lo so che sono di parte, ma questo racconto è veramente bello commovente e soprattutto poetico