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Non erano parenti, ma da quando Alice aveva ricordi l’aveva chiamata nonna.
Era l’unica in classe a non averne una, di nonna vera. Quindi aveva scelto la vicina di casa scorbutica, quella che sbuffava se la mamma di Alice le chiedeva di controllarla per un’oretta quando tardava al lavoro. Alice si sedeva al tavolo della cucina a disegnare o fare i compiti, mentre la nonna in affitto scaldava un pentolino di latte e poi glielo sbatteva davanti con tre biscotti. Quei biscotti mollicci emergevano da un barattolo di alluminio rosso che doveva avere la stessa età della nonna.
Erano altri tempi. Se Alice avesse avuto figli oggi, avrebbe pagato una baby-sitter. Non avrebbe mai avuto la faccia tosta di chiedere a un vicino. Nemmeno li conosceva, i vicini. Figure di fretta e senza volto che incrociava in ascensore. Buongiorno. Salve. Arrivederci.
Invece lei, anno dopo anno, era stata parcheggiata dalla nonna finta. Si chiamava Antonietta, profumava di rose e aveva agli angoli della bocca sempre un po’ di dentifricio secco. A Natale, per sdebitarsi, la mamma di Alice le regalava un panettone e uno spumante. Antonietta li regalava a sua volta: il panettone al dirimpettaio che le cambiava le lampadine e lo spumante a un nipote, vero, che viveva in una città lontana e andava a trovarla per il pranzo di Natale e quello di Pasqua.
Alice non aveva mai conosciuto una persona che parlasse meno di Antonietta. Aveva frequentato la sua casa per almeno 15 anni, quasi tutti i giorni, ma non ricordava di averci mai davvero parlato.
La donna non si sforzava di porle le domande che fanno quelli che non sono abituati a parlare con i bambini: come va la scuola? Qual è la tua materia preferita? Ce l’hai già il fidanzatino? E Alice era piccola: non chiedeva. Non c’era niente di interessante da scoprire in quella donna che le appariva decrepita e la cui unica passione sembrava il cucito. Comprava il pane, lavava i pavimenti, preparava la pastina in brodo e cuciva. Usciva pochissimo. Guardava il telegiornale delle otto, seduta in poltrona con ago e filo in mano: aveva già cenato. Non andava in ferie, non riceveva visite. A volte leggeva un libro, sempre lo stesso, ambientato a New York.
Poi Alice era cresciuta e non aveva più avuto bisogno di essere parcheggiata. L’aveva frequentata sempre meno. Quando si era trasferita per studiare architettura, ormai non la vedeva più.
La telefonata che le aveva annunciato la morte di Antonietta l’aveva lasciata sbalordita.
Non pensava a lei da mesi, forse da anni, aveva impiegato qualche secondo per capire si trattasse della sua nonna d’infanzia.
“Lei è Alice, giusto?” Aveva detto una voce impersonale al telefono. “La signora Antonietta le ha lasciato una scatola.”
“Una scatola?”
“Sì. Il funerale è sabato mattina.”
Antonietta nei suoi ricordi era così anonima che l’unica scatola a cui Alice riuscisse a pensare, mentre guidava per raggiungere il paesino dove era cresciuta, era la scatola dei biscotti mollicci alla vaniglia.
Però, in fondo, in che modo lei era diversa? A poco più di 30 anni era già incastrata nella sua vita.
Si era trasferita nella città dove aveva studiato, lavorava in uno studio di architettura: progettava palazzine residenziali di periferia. Tutte uguali. Dal lunedì al venerdì. Il sabato e la domenica faceva spesa, puliva l’appartamento dove viveva sola e incontrava delle amiche per un caffè, ogni fine settimana erano più lontane.
La scatola era piccola, poco più di una scatola da scarpe. Sopra un post-it attaccato con lo scotch, telegrafico: Per Alice, dalla nonna. E il numero di cellulare di Alice. Aveva sollevato il coperchio, curiosa, seduta a gambe incrociate sul letto dell’hotel.
La scatola era stipata. Fogli e foglietti. Scontrini. Lettere. Biglietti di treno. Biglietti di aereo. Un ditale. Il manifesto di uno spettacolo teatrale in tournée. E foto: tantissime. In bianco e nero ingiallite e più recenti a colori.
Antonietta giovanissima con una risata insolente, un foulard a pois in testa. Antonietta leggermente più adulta, faceva la linguaccia dietro una macchina da cucire. Antonietta splendida in un vestito da sera, tacchi alti e scollatura sfacciata, un uomo che pareva un attore le cingeva la vita all’ingresso di un cinema.
E poi Antonietta davanti a insegne di città: Rio de Janeiro, Toronto, New Mexico, Bogotá, Buenos Aires. Una cartolina da Montmartre e una da Lisbona.
C’erano anche ritagli di giornale con articoli in inglese. Alice, a bocca spalancata, aveva decifrato l’inchiostro scolorito. Il primo titolo diceva: Sarta italiana salva lo spettacolo: abiti pronti all’alba.
In un altro ritaglio c’era Antonietta sorpresa mentre entrava in un taxi: occhiali scuri da diva, valigie enormi e, alle spalle, le insegne luminose di Times Square. Un uomo biondo e imponente le apriva lo sportello.
Alice tradusse il titoletto. “Il golden boy di Broadway e la sarta delle star: in partenza insieme?”
Aprì una lettera, veniva da un indirizzo di Manhattan. Il primo impatto con la foto all’interno le fece distogliere lo sguardo imbarazzata. Antonietta era distesa su un letto ampio, a pancia sotto, una sigaretta in mano. Fissava il fotografo senza vergogna. Il bianco e nero faceva risaltare le curve scolpite del corpo nudo. Alice girò la foto: poche righe sul retro, in italiano:
Torna. Quando vuoi. Qui c’è una macchina da cucire e un whisky freddo per te. Ci saranno sempre. Leo.
Quando aveva chiuso la scatola, ore dopo, le era parso di riemergere da un sogno. Aveva agito di impulso, telefonato al lavoro e comprato un biglietto aereo. Dieci giorni dopo era su un volo per New York.
Alice partiva per riportare a galla una vita passata. Invece, stava cominciando la sua.
Gaia
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Sei stata magnifica anche questa volta! Spesso le persone piů insignificanti nascondono la loro ricchezza interiore, che condividono con pochi intimi. Questa quasi nonna ha lasciato in eredità ad Alice la sua vita, il suo vissuto, la sua saggezza!
Bello e poetico, mi è piaciuto tantissimo. Ciao