Ma ciao!
Questo è un un racconto un po’ più lungo del solito. Spero troverai 10 minuti per leggerlo. E mercoledì prossimo ci sarà il finale! Se invece hai un quarto d’ora e - soprattutto - ti accontenti della mia voce poco professionale, trovi anche la versione audio scorrendo su e cliccando Play. Così puoi ascoltarlo mentre spazzoli il cane, suoni il clacson nel traffico, passeggi, lavi i piatti o gestisci ticket al lavoro 🙃. Si comincia.
LA VITA E L’ANTIDOTO
Adulta.
La carta di identità dice che io sia adulta.
Certo, alla mia età mia madre aveva già due figli grandi - oltre me, si intende. Io non conto: ero quella piccola. Mia madre aveva due figli normali e quella piccola. Quella che pareva nata per sbaglio e per sbaglio cresciuta. A dire il vero, tra me e i miei fratelli c’erano pochi anni di differenza, ma l’ultimogenita rimane sempre quella piccola. La piccolina, la più viziata, la più amata: nelle altre famiglie. Nella mia no. Nella mia, io ero quella piccola perché non valeva la pena chiamarmi per nome, perché ero la causa persa. Mi dicevano che papà se ne fosse andato per colpa mia: già due figli sono difficili da reggere, figuriamoci tre, se la terza quando arriva è pure stupida.
Quando avevo sei anni, abbastanza da ricordare, i miei fratelli si infilavano nel letto per torturarmi.
Larissa, nove anni e treccine bionde fino alla vita, mi si sedeva sulle caviglie a bloccarmi le gambe. “Povera te” annunciava ridacchiando con una voce stridula che risuonava nella cameretta buia - e iniziava a mordermi le cosce. Non era solletico, erano morsi profondi che lasciavano lividi violacei i primi giorni e giallognoli le settimane seguenti. Loris, dodici anni, naso tappato di raffreddore e crudeltà, mi si sedeva sullo stomaco e mi piegava le braccia all’indietro con una mano. Ricordo il dolore lancinante ai polsi trattenuti, penetrava nelle ossa come dal dentista. Con la mano libera mi pigiava il dito indice sulle coste. Lo sentivo premere contro la pelle così forte che pensavo l’avrebbe lacerata fino a bucarmi i polmoni.
Io piangevo e mi divincolavo, urlavo, urlavo e urlavo. E loro ridevano sguaiati fino a farsi venire le lacrime agli occhi. A Loris sotto sforzo iniziava a colare il naso: quel moccio, a tratti liquido e a pezzi grumoso, mi cadeva sul viso. Dovevo smettere di urlare per non trovarmelo in bocca, salato e molliccio. Era capitato un sacco di volte. Peggio era quando per lo sforzo gli scappava un peto: se ne accorgeva sempre per tempo e si spostava in avanti per sedermisi in faccia. Il peso e il fetore erano insopportabili – puzza di minestrone della mensa, di liquami di maiali, puzza di ferocia gratuita. Con il senno di poi ero però fortunata: a sei anni non conoscevo il concetto di umiliazione, ancora.
Quando avevo undici anni, abbastanza da volerli morti, avevano ormai smesso.
Però mi torturavano ancora di più. Con l’indifferenza. Casa nostra era sempre piena di amici, i loro. Venivano a ragionare insieme sulle espressioni di algebra, a ripetere la vita di Platone per l’interrogazione di filosofia, a giocare ai videogiochi, ad ascoltare i Bon Jovi, a provare il mascara nuovo. Parlavano di me come non li sentissi, come non fossi lì. Si spazientivano quando i loro amici mi salutavano:
“Non fare caso a mia sorella. È strana. Capisce se le parli, ma non tanto, vedrai che non ti risponde.”
Dalla mia camera socchiusa li avevo sentiti crescere. Loris che fumava erba al davanzale della finestra e rideva a squarciagola perché gli pareva di parlare velocissimo. Larissa e la sua prima volta: rideva un sacco anche lei, prima, e piangeva un sacco, dopo. Quando quel ragazzo inutile era uscito mi ero affacciata alla porta della sua camera per domandarle se stesse bene. Era in mutande. Viso rigato di lacrime e occhi stropicciati di pentimento. Seduta a gambe incrociate fissava con sguardo implorante il poster degli U2 dietro la spalliera del lettino, come se Bono Vox potesse riportarla indietro di venti minuti. O anche di dieci: quel coglione era durato il tempo di un capriccio.
“Ah ecco, ci mancavi anche tu!” Mi aveva sbraitato addosso. “Allora per farti gli affari degli altri la ritrovi la parola! Sei stupida solo quando ti pare.”
E infatti stupida non ero. Se avessero saputo al tempo che sarei diventata un’insegnante di liceo non ci avrebbero creduto. O forse sì – per la legge non scritta che a fare i professori ci finiscono sempre i più disadattati.
Se sapessero quello che sto per compiere ora non ci crederebbero: hanno sempre detto che ero stupida, non pericolosa.
Adesso so che i ragazzini di problemi possono averne tanti. Se fossi stata bambina oggi, invece che a fine anni 80, qualcuno mi avrebbe agganciato addosso un’etichetta (di sicuro) e una cura (forse). Un disturbo dell’attenzione, dell’apprendimento, della comunicazione o del movimento. Un disturbo nello spettro autistico. Qualcosa mi avrebbero regalato. Invece mi hanno lasciato seduta sulla seggiolina rosa della camera, di un legno sempre più scrostato, da sola in penombra a disegnare gabbiani. Come mai disegnassi gabbiani non lo so più, forse perché avevano le ali larghe abbastanza per volare via, ma gli occhi cattivi abbastanza da rimanere. Questo fino a quando la sedia rosa è diventata troppo piccola e ho iniziato a sedermi a terra. Ho continuato a non parlare in casa, per anni.
Chissà, forse non ho mai avuto un disturbo dello sviluppo, semplicemente nessuno mi rivolgeva parola e io non avevo nulla da aggiungere.
Uno specialista mi avrebbe aiutato. Anche un abbraccio, mi avrebbe aiutato. In ogni caso mia mamma non si è posta il problema di provvedere, né per l’uno né per l’altro: quella piccola era un po’ stupida (quando ero una bambina ingarbugliata) e quella piccola era un po’ pazza (quando ero un’adolescente sconvolta). Due su tre tra i suoi bambini erano venuti bene, le percentuali giocavano a suo favore ed è sempre stata una donna approssimativa.
Ci sono andata poi io, dalla psicologa.
Da grande e quando era già troppo tardi. Però ci sono andata perché stupida e pazza sì, ma non così tanto da credere che ci si possa salvare da soli.
La mia psicologa è una brava donna e la chiamo Anna - non è il suo nome, ma quello vero preferisco non dirlo: mi dispiacerebbe se finisse nei guai quando si scoprirà quello che ho fatto. Se si scoprirà: i sintomi possono manifestarsi anche dopo giorni.
Anna quando mi ha conosciuto mi ha detto che non ero messa affatto bene, ma che la colpa non era mia: era della mia famiglia. Grazie al cazzo. Avevo pensato subito, non è così per tutti? La vita ce la danno e ce la rovinano i genitori. Chi altro ha così tanto potere da farci e disfarci? Io, infatti, ho rotto il cerchio. Di figli disturbati è pieno il mondo, inutile aggiungere i miei. Grazie al cazzo l’ho pensato, ma non gliel’ho detto: stupida e pazza sì, però rimango una persona beneducata.
Continuo ad andarci dalla psicologa, non perché mi faccia un granché bene, continuo ad andarci perché mi piace osservare i pazienti prima e dopo di me. Li incontro di sfuggita, sulle scale: c’è una moglie cornuta che va lì a convincersi che il marito è cambiato e c’è un marito cornuto che va lì a convincersi che lui ce l’ha più lungo dell’amante. C’è la ragazzina obesa che vuole credere che la bellezza vera sia quella interiore, il vecchio alcolizzato che cerca di acchiappare il demone affogato in fondo alla bottiglia di vodka. La moretta agorafobica che va a scoprire che i mostri non stanno in mezzo alla gente sconosciuta là fuori, ma tutti saldamente aggrappati dentro. Il masturbatore compulsivo che in fondo, in mezzo a tutti i vari disturbi del creato, poteva andargli anche peggio.
Vorrei fermarli sulle scale. Vorrei dirlo a tutti: sei senza speranza. Sei senza speranza ed è inutile che vieni qui a sprecare tempo e saliva. Faresti meglio ad ammazzarti, a drogarti, a scopare. Vorrei urlarglielo, però poi mi trattengo: la mia psicologa si chiama Anna ed è una brava donna, deve pur pagare l’affitto.
Quando avevo 16 anni, abbastanza da volermi morta, in realtà la situazione è migliorata.
I miei fratelli se ne erano andati di casa e dovevo convivere solo con la mia, di crudeltà. A partire dai 16 anni a distruggermi ci ho provato in tutti i modi e non ci sono mai riuscita del tutto, ma è stato incantevole scoperchiare le infinite abilità che la mente umana può sviluppare per annientarsi.
Ero sempre sola, anche in classe. Però i compagni non mi prendevano in giro, perché gli passavo i compiti e suggerivo durante le verifiche. Non come le secchione supponenti e scorbutiche. Sì, qualche volta mi dicevano che ero una racchia, una scrofa, un cesso: tutto sopportabile, lo specchio ce l’avevo anche io e non bisogna aver paura della verità.
E poi l’università, i concorsi, le graduatorie, le attese, le supplenze, le ripetizioni sottopagate. Uno sfinimento, ma io comunque non avevo niente di meglio da fare.
E ora mi ritrovo qui, seduta dietro una cattedra stantia a osservarvi. Io sono finita dall’altra parte della cattedra, perché nel frattempo sono diventata quella adulta.
Adulta.
Il passaporto dice che io sia adulta.
E vi assicuro che non c’è niente di avvincente. Non c’è maggiore sicurezza, non maggiore serenità, di certo non maggiore libertà. Pensate di star male a 18 anni? Raddoppiateli: raddoppierete l’inutilità delle vostre ore. Arriverete giusti giusti al punto della vita in cui vi renderete conto che quel che fatto è fatto. E quel che c’è di fatto non vi ha dato mezza soddisfazione. Triplicateli: in più avrete solo un paio d’ernie.
Intendiamoci, non voglio sminuire le vostre difficoltà. Ogni generazione ha i suoi drammi, è solo che invecchiando ci si affeziona ai propri, quelli degli altri sembrano più innocui. Sto in mezzo a voi e di voi non so niente. Troppo giovani per me, troppa vita e troppi desideri. Però una cosa ce l’ho chiara: può solo peggiorare.
Per voi no.
Non la mia Quinta A.
Vi conosco da tre anni e per tre anni vi ho odiato. Non vi ho odiato abbastanza da farvi diventare adulti. Cercare un lavoro e un posto nel mondo, pagare un affitto, mantenere un amico e conservare un amore: ragazzi miei, questo non ve lo meritate. È una lotta costante. È una condanna. E per i pochi di voi che ce la faranno, per i pochi che vinceranno la lotta, arriverà solo peggio: ci sarà la routine.
E quindi voi no. Per voi ho la soluzione.
Tallio. Dose mortale: 8-16 milligrammi per chilo di peso corporeo.
La salvezza si chiama tallio e ci pensa la vostra prof. a salvarvi tutti.
Vi guardo da dietro la cattedra durante il compito in classe: Fabio scrive spedito in prima fila ed Emanuele copia dal suo foglio protocollo. Chiara che guarda il cellulare sotto il banco, dovrei sequestrarlo ma faccio finta di niente: sempliciotta com’è non troverà le risposte giuste manco su Google. Marta e Davide parlottano che è un piacere, per me chiacchierano di altro - si sono annoiati a morte anche durante la verifica. Li capisco: cinque domande sulla Divina Commedia, il Paradiso. L’Inferno quello sì, l’ho insegnato volentieri, che poi tanto basta guardare lo spettacolo di Benigni per sapere tutto. Il Purgatorio l’anno scorso l’ho saltato a piè pari: di salire una dopo l’altra le cornici di quel montaccio soporifero ho fatto volentieri a meno. Qualche canto del Paradiso però va fatto, avete anche la maturità. E poi il compito ve lo beccate voi, mica io.
“Nel quindicesimo canto del Paradiso troviamo uno dei momenti più toccanti dell’opera. Durante l’incontro con Cacciaguida, antenato di Dante, vengono affrontati temi profondi come l’effimerità della vita. Quali reazioni sono provocate nel Poeta? Quali riflessioni ha suscitato in te la lettura?” Mio Dio sparatemi.
Per fortuna le risposte non dovrò leggerle, questi compiti non saranno mai corretti: 10 ad honorem per tutti. E poi la domanda sull’effimerità della vita, proprio oggi, ci sta bene. Non lo sapete ancora, ma è un segno del destino.
Non ho ricordi di quando l’ho studiato io, il Paradiso di Dante. Doveva essere verso i diciotto anni, quando ero amica intima con Molly. Andavamo un sacco d’accordo. Mi aveva conquistato perché era tonda, piccolina, con una farfalla stampata sopra. Potevo appoggiarla sulla lingua, la Molly, e ingoiarla senza bisogno di acqua. Me la dava Marco, quando andavo a casa sua. Diceva che avrei sentito meglio, che sarebbe stato più piacevole. Io non avevo metri di paragone, ma sì, era abbastanza piacevole ed era anche l’unico modo in cui mi sarei lasciata toccare da quel viscido. Poi il viscido ha trovato un’altra ragazza, già disinibita di suo - senza spintarelle chimiche, e la Molly e io ci siamo allontanate.
Non una vera dipendenza la mia: era un surrogato di normalità.
Per lo stesso motivo (o forse per gli altri cento con cui la mia vita andava a scatafascio in quel periodo) non ho memoria di quando ho studiato quel segaiolo di Leopardi o quel depressone di Foscolo. Né ho ricordi di quando ho letto per la prima volta Verga e i suoi sfigati Malavoglia, cavoli non gliene va bene una – erano messi peggio di me. Neppure i poeti. Però quest’anno, alla mia Quinta A, i poeti li ho spiegati per benino e ho anche proclamato, più infervorata che potessi, che gli servivano per capire il mondo, perché sono attuali e d’ispirazione come nessun altro: Pascoli e la connessione con la natura, cosa c’è di più moderno del pianeta che va a rotoli? Carducci che può far riscoprire il patriottismo. Come ci fosse tanto da vantarsi oggi a essere italiani. Ungaretti che di fronte allo scoppio di guerre sempre nuove ci ricorda la necessità della pace. Ci credevo talmente poco che mi veniva da ridere, ma non se ne sono accorti: scorrevano i video su TikTok, per fortuna.
A parte Fabio: Fabio aveva preso appunti.
Ci credo che lo bullizzino tutti.
Mancano dieci minuti al suono della campanella. Dieci minuti al grande momento. Lo aspetto da giorni, forse da anni. L’occasione giusta si è palesata ieri sottoforma di Kira con la kappa.
“Prof. posso portare una colazione domani che è il mio compleanno?” Mi ha domandato.
“Certo! Dopo il compito di lettere festeggiamo insieme.”
Ho aspettato qualche secondo prima di risponderle per controllare la vampata di adrenalina. Ho messo nella voce una punta squillante (volevo sembrare felice per lei), ma anche una nota sbrigativa: non era una grande notizia, niente di sensazionale (non dovevo dare nell’occhio).
E invece il giorno del compleanno è un giorno importante, specialmente se è l’ultimo…
Gaia
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Cara Gaia, come lettrice ti dico che sei bravissima, ma come ex insegnante non posso accettare un racconto come questo, mi hai riempito di incubi!!!
Ciao. Complimenti 😊