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Oggi vi porto nel mio posto preferito di Napoli. E no, non è la pizza. Soltanto perché la pizza non è un posto, però. Altrimenti vincerebbe su tutto. Oddio, non sono sicura. Anche gli scialatielli, la mozzarella, il caffè e le sfogliatelle ricce vincerebbero. La selezione a Napoli va fatta sui luoghi, perché fare una scelta sul cibo è come scegliere tra i propri figli. O tra i gatti, nel mio caso.
Per arrivare nel mio posto del cuore a Napoli parto da Chiaia e mi faccio il lungomare invadente e vociante di famiglie e passanti che camminano troppo lenti per i miei gusti. Però come puoi non essere allegramente vociante se sei sommerso dall’odore del mare e dei taralli caldi 'nzogna e pepe e con gli scogli lì, proprio lì, bianchi e piatti, fatti apposta perfetti per sederti a mangiarli. E come fai a camminare veloce quando davanti a te domina il Vesuvio nero imponente che sembra ordinarti di rallentare a goderti il momento.




Continuo a camminare e ritrovo Castel dell’Ovo, squadrato e maestoso che emerge dall’acqua per rimanere lì solitario a puntare Capri verso l’orizzonte e, sinceramente, chi sta meglio di lui. Ritrovo il cuore monumentale di Piazza Plebiscito col Palazzo Reale e la Basilica iconica, rincontro il San Carlo e poi Galleria Umberto I, che è raffinata e sciatta allo stesso momento.
Proprio come la città che è un mosaico di contrasti. Di sacro barocco e profano di strada, di caos dei vicoli dei Quartieri Spagnoli e di panorami limpidi dalla punta del Vomero, di quartieri feriti da povertà e degrado e di eleganza con Posillipo che guarda il mare.
Io Napoli la adoro, se non si fosse capito. La passeggiata per raggiungere il mio posto preferito è un rincontrare tanti posti amici che ho conosciuto anno per anno. Dopo la Galleria, davanti al Maschio Angioino, trovo però una novità : la discussissima opera di Gaetano Pesce. Discussissima perché i maliziosi ci vedrebbero un doppio senso. Per me di senso ce ne è uno soltanto e non ci credo che qualcuno ci veda dell’altro. Dicono simboleggi l’amore nei confronti di Napoli e - che dire - impettito com’è, più amore di così si muore.
Risalgo la città tuffata nella vitalità di via Toledo e rincorsa dall’odore della pizza fritta di zia Esterina.
Scappo via letteralmente: quell’odore è una provocazione e me lo ricordo bene il peso dell’enorme mezzaluna dorata e la ricotta e i cicoli che si sciolgono in bocca, però mi do un contegno e non cedo alla tentazione.
Passo da Spaccanapoli per arrivare ai Tribunali, quartieri veraci e paraculi. Chissà se tutti quei panni stesi, i Pulcinella che si moltiplicano e poi Maradona ovunque sui muri, sono simboli ancora veri per la gente di lì oppure sono messi per noi che veniamo da fuori. I napoletani lo sanno che quando ci beviamo lo stereotipo, i cuoppi fritti poi vanno giù meglio. In ogni caso va bene lo stesso, io non vorrei nulla di un po’ diverso. Banksy ci ha piazzato la sua Madonna con la pistola, un’immagine fioca che racchiude in sé le centinaia di chiese sbrilluccicanti, San Gennaro e la criminalità organizzata, tutti impegnati a farci il miracolo.
Il mio posto preferito è poco lontano. Però prima di andarci allunghiamo la strada verso una tappa che non va saltata, nel rione Sanità che di per sé è imperdibile: autentico, suggestivo e vivo per le storie di coraggio dei ragazzi del posto. Il cimitero delle Fontanelle, traboccante di scaramanzia e teschi, è adesso chiuso, ma questo mi dà il tempo di scoprire Jago.
Il Michelangelo moderno, alcuni lo chiamano. Non so se è vero, ma so che l’umanità che tira fuori da pezzi di marmo è più di quella che scorgi in tante persone. I corpi bianchi e gli sguardi drammatici, fatti a scalpello, riempiono la chiesa-museo di Jago e urlano forte la sua verità .
È disarmante perché ognuno che entra avrà come me la certezza di sentire ciò che l’autore volesse trasmettere. Ognuno capirà invece a suo modo, ma nessuno è impassibile - ed è per quello che è arte.





Ciao tu! Oggi è un racconto cittadino, ma se vuoi immergerti in avventure passate trovi qui: Egitto, Colombia, Ladakh, Mongolia.
Finalmente arrivo al mio posto preferito, che poi non so se è preferito davvero, perché (come dicevo qui) non sono brava a scegliere. Però di sicuro è il più affascinante, non per bellezza, ma perché è davvero e profondamente inquietante. Se siete facili da impressionare oppure siete di stomaco debole, smettete qui la lettura e non entrate con me nel Museo Universitario delle Scienze e delle Arti. Perché nel MUSA non ci sono quadri, bensì corpi umani, embrioni, neonati, scheletri, organi e sezioni anatomiche, tutti conservati a mollo in formalina giallastra nei vasi di vetro. La collezione, nata secoli fa, serviva ai medici per formarsi e studiare.
Entro dentro e inizia il viaggio nel tempo. Arriva l’odore di chiuso, la luce soffusa, gli scaffali vecchissimi e polverosi, il silenzio pesante che mi stacca dal mondo e sono sopraffatta dall’abbondanza. I resti accalcati l’uno sull’altro: non faccio in tempo a stupirmi di un cranio spaccato che l’occhio scivola sulla dissezione di un volto che mi fisserà in eterno.
L’anatomia umana mi conquista sempre, specialmente se di mezzo ci sono cervelli e malattie misteriose. Lì basta chiedere e sono servita: malformazioni per tutti i gusti, teschi usati per criminologia forense, bimbi idrocefali, fratelli siamesi, ermafroditi. Tra un contenitore e l’altro provo disagio, che è un po’ pena per quei poveretti, ma anche curiosità morbosa per i dettagli.







Finché all’improvviso la luce si spegne. Mi guardo intorno cieca nel buio.
Irrigidisco gli altri sensi indecisa sulla mossa migliore che non sia urlare. Rumore di vetri, un gelo improvviso risale a vortici lungo la schiena e l’aria si tinge di putrefazione. Vorrei scappare, ma ho i piedi incollati e nel nero farei soltanto peggio.
Quando con un click si riaccende la luce, sento il terrore che sbatte forte contro lo stomaco e contro la gola. A un primo sguardo pare tutto normale, solo uno scherzo dell’immaginazione. Però il neonato coi capelli che spuntano dall’interno del teschio ha qualcosa di strano, mi pare diverso: prima non era girato così. Per non sbagliare cammino all’indietro senza staccare lo sguardo dai vetri. Un passo, un altro e ci sono quasi, manca poco alla porta, alle scale, alla vita. Poi una folata, puzza di marcio, retrogusto dolciastro che trasuda di morte.
E allora mi gelo e guardo meglio le teche: con uno scatto tutti i corpi si girano. Il neonato è l’unico che resta immobile, ma spalanca occhi vuoti e fissi nei miei, accenna un sorrisetto.
E mi fa l’occhiolino.
Gaia
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Questa volta sono d'accordo con te, Napoli e i napoletani sono una meraviglia