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Bianco.
Tutto bianco.
E intendo bianco latte, eh. Non parlo di nebbia, di grigio, di panorama offuscato. È come aprire gli occhi immersa in un catino. In quel vuoto totale dimentico tutto. So solo di essermi buttata da San Félix a 2.600 metri sul livello del mare e che quindi ora sarò qualche centinaio di metri più in su e so che sono nelle mani di un ragazzo sfrontato che manovra la vela e mi chiede: “¿Estás bien, amiga?”.
No. Non sto molto bene ora. Però stavo alla grande qualche minuto fa, scrutando dall’alto i colori intrecciati in quell’urbanizzazione inesauribile di Medellín: i suoi grattacieli che invadono la valle e tutto interno il contrasto delle Ande sferzanti, con il loro verde ombroso e deciso. Era stupendo, potrei anche azzardare che mi divertivo, poi una corrente ci ha portato più in alto e sono bloccata nel bianco totale.
Una radiolina gracchia a sprazzi hip hop sudamericano. L’ha accesa il ragazzo pilota, forse per noia, mi sa che non sono una compagna loquace. Sennò solo il silenzio assoluto dell’aria. E il mio respiro che rallento a fatica: l’iperventilazione sbilancia i livelli di ossigeno, attiva il sistema nervoso simpatico che poi ti fa reagire con la lotta o la fuga. Invece io respiro a rilento per illudere il cervello e segnalargli che tutto lassù è proprio normale. Mica sette anni di psicologia e neuroscienze sono stati vani: l’attacco di panico nel cielo di Medellín l’ho evitato e direi che allora ne è valsa la pena.
La corsa verso il margine a picco della montagna l’ho fatta coi crampi allo stomaco. Gli stessi crampi che mi accompagnavano da appena sveglia e si erano intensificati ora dopo ora. Il consenso informato - in cui ho sollevato tutti dalla responsabilità di ammazzarmi - l’ho autografato su un iPad, piegata in due di paura.



In realtà poi i crampi sono spariti alla partenza, quando la vela gonfiata mi ha sollevato contro la mia volontà, ho sentito l’aria pungente e i piedi perdere contatto da terra a rullare nel vuoto. Assestata seduta tra le braccia del vento, sono rimasta a godermi la vista. Dall’alto il ragazzo pilota mi ha indicato i quartieri che avevo visitato proprio in quei giorni.
Ho cercato di ritrovare la Comuna 13: simbolo della Medellín del narcotraffico. L’avevo percorsa la sera prima - luccicante, festosa, dipinta di murales, ricolma di musica e stand – con un giovane del posto che mi raccontava come lì provano a voltare pagina grazie al turismo e alla tenacia di chi si reinventa.
Però la sua famiglia, come quella di tutti, ha una storia di fazioni, di droga e di sangue. Il quartiere intero era un laboratorio di coca e la povera gente - per convinzione o per forza – nelle mani dello spietato cartello di Pablo Escobar. Le bande rivali, la polizia corrotta, le FARC a sinistra e i paramilitari di destra: la Comuna 13 era un teatro di guerra.
Tutt’ora visibili, tra le colline, le colate di cemento a segnalare i corpi abbandonati e sepolti, nella strage legale voluta dal governo, per riprendere il controllo dei suoi malfamati quartieri. I graffiti però raccontano di rinascita, orgoglio e del coraggio di provarci ancora.
Mi indica poi i quartieri moderni, belli e tranquilli dove io dormo. Così diversi dalla piazza Botero che è la piazza centrale e sarebbe imperdibile - con le statue giganti, grasse e gaudenti - se solo non fosse che il tassista mi dice che di notte lui da lì non ci passa e che è meglio che anche io me ne vada alla svelta. Tra le statue, infatti, c’è abbandono e tensione, e l’arte è un bel trucco che però nasconde male.
Tra Botero che cerca di dargli un tono, lo spaccio, il degrado e la prostituzione, l’effetto è sarcastico - abbastanza inquietante.




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Ero ancora lassù, assorta, a ritrovare la posizione di piazza Botero, che è arrivata la folata a spararci in alto e ormai sono minuti che io vedo bianco. Il pilota mi dice che noi due insieme siamo troppo leggeri e aspetta una corrente buona per scendere giù.
Passano i minuti e faccio pace col mondo: è l’ultimo giorno di ferie in Colombia e, se proprio va male, me la sono vissuta.
Altri minuti passano lenti e mi rigiro a chiedergli da quanti anni è che lui vola. Mi viene il dubbio che abbia fatto il corso a metà: solo salire e non sa come scendere. Con l’apparecchio ai denti e le labbra carnose, a me pare un bimbetto di primo pelo. Lui è tranquillissimo, canticchia l’hip hop, risponde che pilota da 14 anni e che quindi non moriremo.
Il quarto d’ora è lungo, ma lungo infinito, però alla fine la corrente giusta arriva. Il bianco sparisce e sembra un ricordo, manco fosse stato un sogno soltanto mio. Il ragazzo mi dice hai visto? Siamo sempre qui. Ora scendiamo, niente paura.
Ritornano i colori, i grattaceli e le Ande, rivedo Medellín brulicante lì sotto. Credo per via dello scampato pericolo e perché la vita pare migliore se hai pensato di perderla, osservo i quartieri con un occhio nuovo.
Il dolore e i contrasti da lassù non si vedono. Dall’alto è armonia, è amalgamata perfetta. Lotte e ingiustizie sono cicatrizzate, i morti ammazzati riscattati dall’arte e la generazione nuova che non dimentica, ma ci balla sopra e ricostruisce. La città tutta, prorompente e vibrante, che vola - anche lei - verso un’identità nuova.
Atterro.
Gaia
Questa era l’ultima storia colombiana. Regalami un cuore se hai letto. Grazie!
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