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Il vero eroe del viaggio è un’eroina e il suo nome è Niva. Lada Niva.
Squadrata e robusta, affidabile e seria. Un SUV russo dal carattere solido: in condizioni estreme ti rasserena, con la sicurezza spartana di chi in mente ha la destinazione soltanto. Pochi fronzoli, diretta e pragmatica, non si distrae e fa il suo dovere.
Non ci ha deluso su neve e su ghiaccio, sotto piogge incessanti o su terreni sconnessi. Se ci siamo spinti su e giù per l’Armenia, coi cambi climatici improvvisi e sfidanti, se abbiamo potuto raggiungere i picchi, ammirare laghi e valli maestose, i monasteri arroccati e le steppe dorate, tutto il merito è suo: la Lada Niva.






La nostra Lada è unica e impareggiabile, però - per onestà intellettuale - lo devo ammettere: non eravamo così originali, di macchine uguali a lei ce n’erano decine, bianche combattenti come la nostra, attive su ruote o abbandonate.
La cosa che mi ha colpito di più, parlando di auto nel paese, è l’approccio armeno al fine vita. Da noi quando una macchina è esausta, la si rottama e sparisce alla vista. Invece in Armenia vanno in pensione, ma rimangono presenze cruciali nel paesaggio rurale. Gli armeni le lasciano a corrodersi lente, derelitte, a lato strada. Via via chi ha bisogno ne smonta un pezzetto e così si ammonticchiano - arrugginite l’una sull’altra - carcasse di auto e di vite passate.
Le serie TV post-apocalittiche io le ho viste tutte, e lo scenario in cui mi trovo mi proietta immersa veloce lì dentro. Speriamo che, in questo caso, l’estinzione umana sia avvenuta per colpa di un virus e non degli zombie. Perché già li sento, gli zombie bambini, uscire urlanti e assetati di sangue, dai pulmini di scuola abbandonati, lungo le sponde del lago Sevan.
Io entro dentro e scatto foto. I sedili scassati raccontano storie che non sono sicura di voler sentire: sto attenta ai vetri per non tagliarmi e ai sussurri del vento per non spaventarmi.




Ciao! Stai leggendo il terzo racconto dall’Armenia. Grazie per essere qui! Se le hai perse, leggi le prime due: SCAPPA! & UN BRINDISI DOVE LE MONTAGNE PARLANO.
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Non solo le auto, ma anche gli edifici sono pezzi di storia dimenticati. Dal 1920 fino alla sua caduta, l’Armenia è stata parte dell’Unione Sovietica che ha dato una spinta per industrializzare un paese che prima era principalmente agricolo. Dal finestrino della mia Lada, scruto le opere rimaste a metà. Come se, col crollo dell’URSS e in fretta e furia, avessero lasciato incompiuti tutti i progetti.
Ferrovie a pezzi e centrali elettriche, ponti sospesi senza tutti i pilastri, fabbriche vuote e ormai in declino, condomini severi, ingrigiti e tristi, con panni stesi che saranno recenti oppure lì appesi da quarant’anni.
Arde però il contrasto della speranza, con migliaia di candele gialle accese eterne nei monasteri montani. L’odore di cera è una costante e ogni armeno in pellegrinaggio fa la sua parte per mantenerlo vivo. Nel periodo sovietico ci hanno provato a estirpare la religione - sacerdoti arrestati e deportati con le purghe di Stalin che non li hanno graziati, propaganda ateista e chiese serrate - però mi sembra che la fede ancora fiorisca e sfavilli. L’Armenia è stato il primo paese al mondo ad adottare il cristianesimo come religione ufficiale e tutt’ora sta lì, aggrappata salda alle tradizioni.




Io la spiritualità la cerco nei monti. Anzi nel monte per cui sono là.
Se in Europa avete mangiato in un ristorante armeno, ci scommetto si chiamasse “Ararat”. L’Ararat è un monte e una meraviglia, e pure un simbolo che rappresenta la loro terra, la loro cultura, la loro unità. Addirittura sta disegnato, sfrontato, nel mezzo dello stemma nazionale armeno. È una montagna imponente e grandiosa che domina visibile a ogni angolo. Noi giriamo, a bordo di Lada, e speriamo di catturarlo in foto. La sua vetta di neve perenne è inconfondibile sulla base vulcanica, tra le pianure.
C’è però qualcosa che stona, di una tristezza inesprimibile: l’Ararat che è un tale simbolo per la nazione, non si trova più oggi in territorio armeno. È a 16 chilometri dal confine ma irraggiungibile, perché geograficamente parte proprio della Turchia che col genocidio li ha straziati. E però ce l’hanno sempre in faccia, a ricordargli il trauma collettivo e tutto ciò che gli è stato sottratto.
Io l’Ararat lo cerco per onorare i System of a Down: uno dei miei gruppi preferiti che sono pure di origine armena. Se non li conoscete, dovete conoscerli. Ora stanno facendo il tour in America e non c’è verso che vengano in Europa - mannaggia a loro.
Le loro canzoni sono grido e protesta, un mix esplosivo di rabbia e poesia, con l’heavy metal che fonde in melodie malinconiche e poi in caos nuovo, ritmi potenti e chitarra aggressiva. Serj Tankien, la voce principale, mescola insieme critica ironica e denuncia feroce: contro il sistema, la corruzione, le guerre tutte e le disuguaglianze.
Noi avevamo un obiettivo dichiarato: vedere l’Ararat ascoltando a tutto volume “Holy Mountains": la loro canzone che nel titolo ha le montagne sacre, un’allusione chiara al monte Ararat, testimone silenzioso delle atrocità subite.
Volevo sentire quell’intro solenne, poi l’esplosione di disperazione e di odio e l’invocazione per la giustizia. Ho rincorso la visione dell’Ararat al completo, ma la punta, così alta, è sempre nascosta da nuvole o pioggia.
Penso che la ricerca rimarrà incompiuta, ma è proprio quella che li definisce: gli armeni cantano forte e cercano ancora.
Gaia
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L'incipit mi ha convinto a comprare una Lada Niva. Della serie, "marketers, scansatevi."
Scherzi a parte, mi ricordo quando ho visto l'Ararat per la prima volta. È una di quelle mete che ti chiamano e quasi non sai il perché e almeno una volta nella vita devi vederle da vicino.
Era il primo giorno a Yerevan, c'erano 52 gradi percepiti (già). Quando siamo riuscite a uscire dai musei verso le sei di sera, ci siamo arrampicate sulle terrazze di Cascade, su su fino in cima, per vedere la città dall'alto.
Vedere le città dall'alto aiuta a capirle.
Su una delle varie terrazze mi giro e oltre i palazzoni, oltre la coltre di smog e polvere, vedo all'orizzonte due cime innevate. Ci ho messo un attimo a realizzare che i miei occhi stavano guardando il monte Ararat.
Hai descritto tutto così bene che mi è sembrato di essere lì con te .....brava!!!❤️