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La scalinata non finisce mai, forse perché ho mangiato troppo. E Manti, Khinkali e Adjaruli stipati nello stomaco non garantiscono un’ascesa scattante. È cibo eh, sono i nomi dei piatti che ho assaporato, cibo buonissimo - tra l’altro. Però sono piatti difficili da pronunciare quanto difficili da dimenticare, mentre affronto i 572 gradini del Cascade Complex.
Provo a convincermi che così smaltisco, ma per smaltire la cena - e tutto quello con cui mi hanno rimpinzato in Armenia - dovrei puntare alla cima dell’Everest, non basterà certo raggiungere il punto panoramico di Yerevan capitale. Anzi, già mentre arranco, sento crescere il rischio che poi, per lo sforzo, torni giù pronta per un meritato dolcetto.
Però è l’ultima sera del viaggio in Armenia e l’ultima sera si sa: vale tutto.
Il complesso chiamato Cascade è composto da più scalinate, separate da belle terrazze dove ammirare le luci febbricitanti della città, gli edifici, le piazze e i viali.
Ci sono fontane, opere d’arte moderna e qualche statua di Fernando Botero. Botero lo avevo visto anche pochi mesi prima a Medellín in Colombia, ma ero dovuta scappare via dalla piazza, qui tergiverso ad ammirarle più a lungo, un po’ perché le statue proprio lo meritano e - ancor più - per rifiatare.
Yerevan dall’alto è una celebrazione di modernità veloce. Non ha niente a vedere col resto del paese fatto di immense praterie verdi, cupe e profonde, montagne grandiose, pastori, contadini e vinicoltori.



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Sarà che ormai sono affezionata, sarà che mi pare di capire la gente, ma anche Yerevan mi risulta accogliente: la guardo dall’alto e credo di riconoscere tutto lì sotto. Lo so da sola che è un’illusione, intanto perché è buio pesto e poi perché per conoscere davvero un paese non basta certo un viaggetto, però i miei occhi si posano in giro e consacrano un po’ a sentimento le zone che voglio salutare.
Così credo di riconoscerla e saluto piazza della Repubblica, le vie vibranti di negozi e locali. Saluto la collina col museo del genocidio, con l’obelisco e la fiamma eterna che brucia a ricordo delle vittime e di quel passato che più volte mi ha azzannato allo stomaco.



Saluto i monasteri e tanto lì non sbaglio, posso pure guardare a caso nel buio, perché ovunque io guardo è proprio sicuro che almeno uno di monastero ne becco.
Saluto i cimiteri che così tanto mi hanno fatto sbellicare. Va bene, lo sento che lo stai pensando: non ci sarebbe granché da ridere. Però sono davvero decisamente bizzarri e sono pezzi di cultura da preservare - e io li preservo raccontandoli a te.
Intanto non sono recintati, né separati da mura o steccati. Spuntano fuori all’improvviso e basta. Con tombe addossate le une sulle altre che invadono proprio le carreggiate, le città, le piazze. Poi ci sono ricostruzioni in 3D degli abitanti delle tombe che ti fissano concentrati, come foto fatte a sorpresa. Ora mi scuseranno i cari defunti, che parlo di loro e pubblico foto, ma vi assicuro che in me c’è ammirazione soltanto per come i morti in Armenia riprendano vita. I cimiteri sono una chicca e oggi ne sono andata a visitare tre o quattro.
Sarà pure una destinazione inusuale, però era l’ultimo giorno di viaggio e l’ultimo giorno si sa: vale tutto.






Dall’alto della scalinata del Cascade Complex saluto le strade sconnesse appena fuori città che mi hanno permesso di scorrazzare per tutto il paese.
L’unica zona dove non mi sono spinta è quella più a est del Nagorno-Karabakh: al tempo del viaggio era territorio azero, ma di fatto abitato e controllato da armeni. Dico al tempo del viaggio perché di guerre ce ne erano state già due e tutti sapevano che la situazione esplodeva, con provocazioni e guerriglia ai confini. L’Azerbaigian supportato dai turchi, i militari russi a far da pacere, e tutti i giovani armeni a prepararsi alla guerra. Ora che scrivo lo so molto bene che, nemmeno cinque mesi dopo che sono tornata, la miccia è esplosa davvero. L'Azerbaigian ha lanciato le bombe e dopo poco è arrivata la resa delle autorità armene, un esodo di massa, morti e violenze. E mentre tutto passava in sordina, io - dalla mia comoda casa - pensavo agli angosciati ragazzi armeni che avevo conosciuto l’aprile prima.
Però quel giorno dall’alto del Cascade Complex ancora non lo sapevo. E quindi ti racconto di me in quel momento che sto lì e saluto il vernissage market: il bazar confusionario di artigianato, gioielli, dipinti, tappeti e cimeli sovietici. Ci ho comprato un anellino ricordo che nel frattempo ho perso, povera me, e una bandiera lucente - rossa, blu, arancione con in mezzo un triangolo bianco seghettato – che è la bandiera del Nagorno libero.
Dall’alto saluto il monte Ararat che in realtà non vedo per la distanza e il buio, ma so che c’è ed è più alto di me. Io non lo vedo che mi sovrasta e saluta. Lo immagino però come l’ho visto quella mattina durante il giro di arrivederci, al di là di un confine e campi gialli dormienti: fissavo il vuoto e ho sentito gli spari, saranno stati di esercitazione soltanto, ma ci hanno fatto allontanare veloci.
Lo immagino così forte che quasi lo vedo. Anzi, dai, lo vedo davvero.
Perché sono in viaggio. E in viaggio si sa: vale tutto.
Gaia
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Evviva, ho capito cosa devo fare per scrivere un commento sul tuo racconto!
Anche questo mi è piaciuto molto, ma nei racconti relativi all'Armenia c'è un velo di tristezza che fa da sottofondo...Vorrei tanto che tu raccogliessi tutti i tuoi racconti sui viaggi in un unico libro, sei troppo brava per lasciarli nel cassetto!